(Italian) Se l’ONU condanna ancora l’embargo a Cuba e i media non se ne accorgono

ORIGINAL LANGUAGES, 15 Nov 2010

Gianni Minà - Latinoamerica

La recenti elezioni di Dilma Rousseff alla Presidenza del Brasile e di Pepe Mujica in Uruguay, così come l’undicesima vittoria in dodici anni di Ugo Chavez nelle elezioni di metà mandato in Venezuela, hanno confermato il vento progressista che spira in America latina e che, evidentemente,  influenza le scelte di molti altri paesi, specie del sud del mondo.

Martedì 26 ottobre, per esempio, l’Assemblea della Nazioni Unite, per il diciannovesimo anno di seguito, ha condannato il blocco economico imposto dagli Stati Uniti a Cuba, che dura ormai da quasi mezzo secolo e rappresenta un vero e proprio assedio della nazione più poderosa del mondo all’isola della Revolucion.

187 paesi hanno votato in favore del documento proposto da Cuba. Contrari solo Stati Uniti e Israele. Tre gli astenuti: Isole Marshall, che ospita una grande base militare Usa nel Pacifico, la Micronesia e le Isole Palau.

Quest’ultimo è un arcipelago del Pacifico, di ventimila abitanti, ed è praticamente un protettorato Usa, tanto da essere rappresentato all’ONU da Stuart Beck, un avvocato di Long Island di cittadinanza israeliana.

L’anno scorso Palau aveva votato in favore dell’embargo, dopo aver ricevuto 200 milioni di dollari per accollarsi diciassette cinesi musulmani uigur, catturati in Afghanistan e finiti a Guantanamo.

Quest’anno, evidentemente, a questo statarello è mancata la materia prima per continuare in questo mercato.

L’occasione per confermare il proprio pregiudizio quando si parla di Cuba non è mancato invece a buona parte dei media italiani, che hanno fatto finta di non accorgersi che la condanna votata  dall’Assemblea delle Nazioni Unite “riafferma i principi di eguaglianza sovrana fra gli stati e di non intervento o ingerenza nelle questioni interne e nella libertà di un paese”.

Perché il documento votato al Palazzo di vetro ribadisce il rifiuto di promulgare e applicare leggi come la “Helms-Burton”, emanata dal governo degli Stati Uniti nel 1996 “i cui effetti extra territoriali nuocciono anche alla sovranità di altre nazioni e agli interessi legittimi di entità e persone sotto la propria giurisdizione e attentano alla libertà di commercio e navigazione”.

Molti dei nostri media, in questo autunno farsesco del nostro paese, hanno ignorato però questi dettagli e i solerti redattori di questi strumenti di comunicazione non si sono nemmeno accorti, navigando in rete, delle immagini dei diplomatici dei vari paesi del mondo che, alla fine della votazione, hanno fatto la fila per complimentarsi con il ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez.

Un atto non di invincibile “antiamericanismo” ma di rispetto che si deve al diritto di autodeterminazione dei popoli.

Così, per esempio, a colleghi come Pierluigi Battista del Corriere della Sera, felice per il conseguimento del Premio Sacharov al dissidente cubano Guillermo Fariñas, è sfuggita l’importanza politica ed etica della condanna per la seconda volta, anche nell’era di Obama, dell’antistorico e immorale blocco economico.

Una censura che sottolinea anche la contraddizione della Comunità Europea, che vota all’ONU contro questa sanzione dopo non essere stata capace di partorire una “posizione comune” nei riguardi di Cuba e di aver osteggiato, anzi, il tentativo pacificatore dell’ex ministro degli Esteri spagnolo Moratinos che, con l’aiuto della Chiesa Cattolica, ha poi trovato una mediazione con il governo dell’Avana per il rilascio degli oppositori che, nel 2003, furono accusati di avere cospirato con gli Stati Uniti per abbattere una volta per tutte la Rivoluzione e l’anomalia politica che rappresenta.

Pierluigi Battista ha definito quella stagione la “primavera nera” di Cuba, trascurando con disinvoltura che, il 20 maggio scorso, alla emittente WOBA della catena Univision di Miami, Roger Noriega, ex sottosegretario di stato del governo di Bush Jr (2003-2005), ha riconosciuto di aver cospirato con Jeames Cason, capo dell’ufficio della sezione di interessi degli Stati Uniti a Cuba (2002-2005), per far nascere e fomentare il caos nell’isola, con sequestri di aerei e perfino del ferry boat della baia dell’Avana. Una trama per farla finita, finalmente, con la Rivoluzione cubana.

Tutto questo è avvenuto comprando il dissenso e favorendo una strategia della tensione alla quale, purtroppo, Cuba reagì con esagerata durezza.

Non a caso, in un articolo, Saul Landau (ex ricercatore del Dipartimento di Stato nordamericano e ora professore dei mezzi digitali del politecnico statale della California) si è chiesto cosa sarebbe successo se gli stessi pericolosi meccanismi fossero stati messi in moto negli Stati Uniti dai cubani o da rappresentanti di qualunque altra nazione.

E’ sufficente ricordare la storia dei Cinque agenti dell’intelligence cubana che hanno smascherato le centrali terroristiche che dalla Florida organizzavano e mettevano in atto attentati  nell’isola (più di tremila i morti nel corso degli anni).

Dopo che il governo dell’Avana avvisò quello di Washington, i terroristi come Posada Carriles o Orlando Bosh non furono disturbati mentre i Cinque cubani, accusati di spionaggio, si trovano in carcere da dodici anni, dopo un processo a Miami definito “arbitrario” dalla commissaria per i diritti umani dell’ONU. Un giudizio successivamente bocciato dalla Corte di Appello di Atlanta e infine impantanato dalla Corte Suprema.

Uno degli organizzatori di queste azioni eversive, Santiago Alvarez, dopo essere stato scoperto con una macchina piena di esplosivo che, a suo dire, doveva servire a eliminare Fidel Castro, ha rivelato in un processo a Miami di essere il sovvenzionatore della famose “Dame in bianco”, spesso citate come simbolo di resistenza al regime cubano.

Almeno questo clima pesante, con la presidenza di Barack Obama, sembra essersi attenuato, anche per il favore che Cuba continua a godere con il resto del continente che Chomsky, non a caso, ha definito ormai “il più progressista del mondo”, ma adesso molti liberals, come  il grande linguista del MIT di Boston o come Wayne Smith, il diplomatico nordamericano che per il presidente Carter, alla fine degli anni ’70, tentò il dialogo con la Rivoluzione, si augurano che non solo il penoso carcere dei Cinque, ma anche l’embargo condannato dall’ONU finiscano, in un mondo che ha bisogno di gesti etici e non di posizioni politiche senza senso.

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