(Italian) Stati Uniti, il Dramma Silenzioso dei Reduci
ORIGINAL LANGUAGES, 29 Nov 2010
Alberto Tundo, PeaceReporter – TRANSCEND Media Service
Il numero dei soldati che si suicidano ha superato quello dei militari morti in Afghanistan dal 2001.
L’elenco continua ad allungarsi, inesorabilmente. Contiene i nomi di quelli che sono tornati a casa dalle trincee della guerra al terrorismo ma hanno perso quella contro se stessi, una guerra che ha fatto più morti della missione Usa in Afghanistan.
Le cifre del dramma. Sono più di 1100 i reduci americani che si sono suicidati tra il 2005 ed il 2009. Questo dicono le cifre diffuse dal Dipartimento della Difesa (Department of Defense, Dod), il quale precisa che si tratta di un’approssimazione per difetto e che non esistono dati comprensivi di un fenomeno che è ormai diventato un’emergenza nazionale. Nemmeno i Talebani e le varie milizie dei signori della guerra afghani, infatti, sono riusciti a infliggere, in otto anni di conflitto, un colpo duro all’esercito Usa come quello provocato da un mix di depressione e solitudine. Purtroppo, il quadro non dà segni di miglioramento, anzi.
I numeri raccontano di un fenomeno in rapida crescita. Il Dod ha contato 267 suicidi nel 2008, 309 l’anno successivo. Ma il Department for Veteran Affairs (Dva) fornisce cifre diverse e ancora più inquietanti, arrivando ad un totale di 707 suicidi solo nel 2009, 98 dei quali ad opera di reduci di ritorno da Afghanistan e Iraq. Altre 10675 soldati hanno provato a farla finita senza riuscirci e 1868 di loro risultavano aver combattuto proprio sui due fronti principali aperti da Washington nella lotta al terrorismo. Più in generale, un 20 per cento circa delle oltre 30 mila persone che ogni hanno scelgono di togliersi la vita negli Stati Uniti, sono veterani. Oltre seimila soldati l’anno, 18 al giorno. Le statistiche dicono che se il tasso di suicidi all’interno della popolazione civile è di 11,1 per 100 mila abitanti, quello tra i militari è del 12,5.
La risposta di Washington. L’allarme suona da anni, dal 2003, per la precisione, da quando cioè arrivarono sulle scrivanie degli alti generali i primi report che segnalavano questo preoccupante trend all’interno delle Forze Armate. Il legame tra l’aumento dei suicidi e le missioni in Iraq e Afghanistan è noto da allora. E Washington, va detto, ha reagito immediatamente, scegliendo di intervenire sul terreno della cura della salute mentale. Nel 2004 il Dva ha adottato un Comprehensive Menthal Health Strategic Plan con l’obiettivo di abbattere il numero di coloro che ricorrono al gesto più estremo. Il dipartimento, poi, ha continuato ad assumere personale specializzato nel trattamento del disagio mentale e oggi può contare su oltre 20 mila specialisti tra medici e assistenti. Dal luglio 2007 è attiva una hotline gratuita proprio dedicata a quei reduci che abbiano propositi suicidi, con batterie di esperti al telefono pronti a fornire un aiuto immediato, anche se solo attraverso la cornetta di un telefono. Il numero della speranza è 1 800 273 (8255), opzione 1. Secondo quanto rivelato dalla dottoressa Janet Kemp, coordinatrice del programma anti-suicidi del Dipartimento per i veterani, ogni mese arrivano più di 10 mila telefonate. Fino ad ora, questo servizio ha salvato oltre settemila vite. E a luglio 2009, il servizio ha esteso la sua attività ai social network, attraverso la creazione di una chat aperta in una sezione apposita del sito del Dva: lì, militari depressi o amici e conoscenti possono chattare nell’anonimato, segnalare casi e chiedere aiuto.
Il prfilo del suicida. Poi c’è la rete capillare dei centri medici che fanno capo proprio al Dipartimento per i veterani. Quello di Denver, quest’anno, ha ricevuto dall’esercito 17 milioni di dollari per dar vita, insieme alla Florida State University, ad un consorzio di ricerca sui suicidi dei militari. L’obiettivo è quello di tracciare un profilo quanto più preciso possibile del soldato a rischio, in modo da poterlo seguire tempestivamente. Già adesso, comunque, si sa quali sono le vittime potenziali: sono prevalentemente maschi, molto giovani, tra i 18 e i 29 anni, ragazzi che non si sono ancora costruiti una vita in cui poter rientrare dalla guerra.
Il rientro è il detonatore: i traumi inflitti dal conflitto si accendono ed amplificano proprio nella nuova realtà. Lì il soldato è solo, non ha un gruppo al quale appoggiarsi e finisce prigioniero dei suoi demoni, cui si affiancano alcol e droga. Ma i problemi mentali che hano stritolato molti reduci sono stati aggravati anche dalla crisi economica, dalla mancanza di un lavoro e dalla perdita della casa. Per questo, l’esercito americano sta puntando anche sulla costruzione di una rete di assistenza che sia in grado di accogliere il soldato una volta finita la missione. Quanto questa sia importante lo sa bene Eric Shinseki, eroe del Veitnam, oggi a capo del Dva, e lo spiega con parole semplici: “Si possono steccare e suturare le ferite del corpo ma quelle di tipo emotivo non si prestano a queste soluzioni”.
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