(Italiano) Studi per la pace e risoluzione dei conflitti: necessità della transdisciplinarietà
ORIGINAL LANGUAGES, 17 Feb 2014
Johan Galtung – TRANSCEND Media Service
Transcultural Psychiatry – Febbraio 2010
Abstract. Gli studi per la pace cercano di capire come evitare la violenza attraverso la trasformazione dei conflitti, la cooperazione e l’armonia prendendo spunto da molte discipline, tra cui psicologia, sociologia e antropologia, scienza politica, economia, relazioni internazionali, diritto internazionale e storia. Ciò solleva il problema della coesistenza, complementarietà e integrazione dei diversi sistemi di conoscenza. Infatti, tutte le scienze umane e sociali sono prodotti del sistema statuale post-Vestfalia e così reificano lo stato e il suo sistema interno e internazionale e si concentrano su questo come la principale fonte di conflitto politico. I conflitti, tuttavia, possono derivare da altri fattori quali generazione, genere, razza, classe e così via. Per contribuire alla costruzione della pace e alla risoluzione dei conflitti, le scienze sociali devono essere globalizzate, sviluppando teorie che affrontano i conflitti ai livelli delle interazioni interpersonale (micro), all’interno di paesi (meso), tra le nazioni (macro) e tra regioni intere o civiltà (mega). La psichiatria e le discipline “psi” possono contribuire alla costruzione della pace e alla risoluzione dei conflitti attraverso la comprensione delle interazioni tra i processi a ciascuno di questi livelli e la salute mentale o malattia degli individui. Parole chiave: risoluzione del conflitto • interdisciplinarità • studi per la pace • teoria dei sistemi
Gli studi per la pace mirano a comprendere la violenza e come superarla attraverso la trasformazione dei conflitti (“pace negativa”) e la costruzione della pace attraverso la cooperazione e l’armonia (“pace positiva”). Per avanzare in questa attività, gli studi per la pace devono prendere spunti da molte discipline scientifiche. Ciò solleva il problema della coesistenza, della complementarità e dell’integrazione tra diversi sistemi di conoscenza.
Ogni scienza è una cultura, con canoni per filtrare il falso dal vero e ciò che non è valido da quello che lo è; e a volte anche il non-etico-sbagliato dall’etico-giusto, il non estetico dall’estetico e il sacrilego dal sacro. Il testo purificato è conoscenza, circondato da sottotesti e supertesti, testi profondi e contesti.
Ogni scienza è anche incorporata in una struttura, solitamente verticale o gerarchica, con produttori e consumatori di quella conoscenza. I produttori di conoscenza possono essere divisi in maestri, discepoli e apprendisti, sezionati da strati orizzontali di pari. Non c’è nulla di “neutro” o “oggettivo” in questa struttura, ma è ragionevole chiedere a una scienza che la sua cultura e i suoi canoni siano resi espliciti, disponibili per essere visionati da chiunque. La capacità dei produttori di conoscenza di rendere esplicite le ipotesi diventa un criterio di validità. Inoltre, la scienza, sia nella sua cultura sia nella sua struttura, dovrebbe essere pubblica, vale a dire che si svolga nello spazio pubblico. La segretezza è l’antitesi della scienza, poiché l’ultima prova della validità non è l’oggettività ma la conoscenza intersoggettiva, con premesse e conclusioni che siano accettabili da una vasta gamma di osservatori. C’è un doppio problema qui: al fine di comunicare le conoscenze scientifiche e riprodurle, gran parte della cultura della scienza deve essere interiorizzata; perché il verdetto degli osservatori abbia conseguenze, essi devono occupare una posizione, come quella di un “pari” per una revisione tra pari, all’interno della struttura. La scienza ci richiede di essere dentro e fuori allo stesso tempo. In breve la scienza è ESPLICITA, PUBBLICA e INTERSOGGETTIVA.
IL POSTO DELLE SCIENZE SOCIALI NEGLI STUDI PER LA PACE
Violenza e guerra, conflitto e pace, hanno tutte una cosa in comune: sono relazionali. La violenza si manifesta tra perpetratore e vittima, nella guerra tra belligeranti, nel conflitto tra obiettivi degli attori e dalle implicazioni tra gli attori, nella pace tra gli attori, come una struttura di pace, con una cultura di pace. Gli attori possono essere individui o collettività; in entrambi i casi, l’unità di misura della pace è quello che succede agli esseri umani, la misura in cui i loro bisogni e i diritti fondamentali sono soddisfatti. Homo mensura: l’uomo è la misura di tutte le cose (Protagora). Con queste premesse, come si relazionano gli sudi per la pace alle scienze sociali? Sono tutte importanti.
La psicologia, con la sua attenzione sugli individui, solitamente al livello micro, ci informa su fino a che punto è stata raggiunta la pace, cioè quando sono soddisfatti i bisogni fondamentali per la sopravvivenza e il benessere. Questi bisogni comprendono l’avere una gamma di opzioni di vita radicate in valide identità e avere i diritti fondamentali garantiti, che sono non solo civili e politici. L’analisi psicologica è fondamentale, anche per comprendere il conflitto intra-personale e inter-personale; ma non dobbiamo aspettarci o pretendere maggiori intuizioni su livelli più ampi o strutture del conflitto.
La sociologia, concentrandosi sull’interazione e la struttura, è per definizione più relazionale e quindi strutturale e pertanto meglio adatta per comprendere come rapporti e strutture violenti producono altre relazioni violente, e come sarebbe una struttura di pace tra persone e gruppi. L’antropologia, concentrandosi sul significato e sulla cultura, esperta di un’ampia gamma di società molto differenti, è più adatta per comprendere come culture violente riproducono se stesse, e che aspetto ha una cultura di pace per persone e gruppi. (Naturalmente, sia sociologia e antropologia riguardano le interazioni della struttura e della cultura, seppur con accentuazioni diverse.). La scienza politica (Staatswissenschaft) è altrettanto cruciale, dato che si concentra sull’uso e sull’abuso di potere, sui processi di legittimazione e di contestazione e sulle istituzioni che incorporano e tramandano il potere nel tempo.
Mentre l’economia, che si concentra sulle transazioni di valori economici, è anche strutturale e sistemica, questo livello di analisi facilmente perde di vista la persona in quanto si concentra sulla crescita sostenibile del sistema, piuttosto che sul soddisfacimento dei bisogni fondamentali dei più bisognosi. La stessa limitazione si applica potenzialmente a sociologia, antropologia e scienza politica: gli esseri umani sono facilmente oscurati dalla struttura, dalla cultura e dalle istituzioni.
Le relazioni internazionali (RI) sono in realtà un termine improprio, poiché il punto focale di questa disciplina è sullo stato (che è un attore istituzionale, identificato con un territorio su cui esso pretende la giurisdizione), non sulla nazione (un gruppo che dispone di una lingua, una religione, visioni di un passato, presente e futuro e un radicamento sul posto). Le RI analizzano il sistema statuale in modi che sono analoghi a quelli che sociologia, antropologia, scienza politica ed economia usano per i sistemi di gruppo, identificando le strutture di interazione, le transazioni economiche, il potere e la formazione delle istituzioni, con forse meno enfasi sulle culture. Il diritto e il diritto internazionale (DI) si concentrano su norme istituzionalizzate, principalmente proscrizioni, escludendo alcuni atti di commissione e sul modo in cui la realtà descrittiva è conforme a queste norme. La storia segue gli attori attraverso il tempo, esplorando i mutamenti e le continuità, spesso con una attenzione su singoli personaggi d’élite a scapito della gente comune e sugli attori a scapito di strutture e culture.
Inutile dire, che gli studi per la pace hanno bisogno di tutte queste discipline, così come gli studi sulla salute (noti pure come studi di medicina, altro termine improprio) necessitano di fisica, chimica, anatomia, fisiologia, patologia e così via. E tuttavia gli studi sulla salute sono più che una somma multidisciplinare delle parti, costretti dalla terapia ad affrontare la persona nella sua totalità. Siccome la persona è un sistema integrato, gli studi sulla salute devono integrare le molteplici discipline e i livelli di descrizione entro una teoria coerente. Lo stesso vale, naturalmente, per gli studi per la pace.
Per questi ultimi, tuttavia, sorge un grave problema, uno scheletro nell’armadio: tutte le scienze umane e sociali sono i prodotti non solo dell’Illuminismo, ma anche del sistema statuale post-vestfaliano, dal 1648 in avanti, in Europa. In altre parole, le scienze sociali emersero in tandem con la cristallizzazione del sistema statuale nei secoli XVII, XVIII e XIX. La sociologia è sorta come studio della società e la società fu identificata con il paese, un territorio governato da uno stato. L’antropologia fu molto coscientemente creata dalle potenze coloniali come studio delle società senza stato. Era una negazione degli altri molto utile per sostenere la tesi dello statalismo in quanto sua eccezione. La scienza politica, come Staatswissenschaft, è stata proprio questo tipo di studio: l’esercizio del potere entro lo stato e da parte di esso. L’ economia era essenzialmente l’economia di singoli Stati, con attenzione alle transazioni con altri Stati, utilizzando PIL e PNL come misure chiave. Un’eccezione molto importante è il marxismo, che si è concentrato in modo esplicito sul capitalismo come sistema mondiale che supera i confini statali. Le RI sono state lo studio delle relazioni tra Stati, con il diritto e il diritto internazionale che studiano le regole che normano le relazioni intra- e inter-stato. La storia è stata soprattutto quella dei singoli Stati, con i principali consumatori di storia nel sistema scolastico formati come futuri cittadini attraverso miti condivisi nella memoria collettiva.
E la psicologia? È davvero lo studio di persone che lottano o non riescono ad adattarsi a questi cambiamenti sociali? L’attenzione per la singola persona permise una scienza senza frontiere, il residuo problema essendo come ottenere sufficiente sensibilità alle enormi variazioni strutturali e culturali.
Questo breve genealogia suggerisce la seguente TESI: LE SCIENZE SOCIALI COME LE CONOSCIAMO REIFICANO LO STATO E IL SISTEMA STATUALE. Se questo è un pregiudizio, qual è il rimedio? In una parola: la globalizzazione delle scienze sociali. Certo, non possiamo pretendere che gli Stati non esistano, ma il sistema statuale può scomparire, lasciando il campo a un sistema delle regioni e in qualche misura a un sistema globale. Le scienze sociali dovranno sopravvivere alla durata limitata del sistema statuale. Il territorio è attraversato da linee di faglia, con placche tettoniche territoriali in movimento e deformazione, che creano tremori e scosse. Ma ci sono altre linee di faglia che riflettono genere e generazione, razza e classe, inclusione/esclusione e identificazione nazionale. Esse hanno delle implicazioni nel futuro delle scienze sociali per come possono essere applicate agli studi per la pace.
Per esempio, al fine di globalizzare le RI, rendendole transfrontaliere, dobbiamo aggiungere al loro attuale “focus” sulle relazioni interstatali, un’attenzione alle relazioni che siano di inter-genere e inter-generazione, inter-razza e inter-classe, inter-inclusione/esclusione così come inter-nazionali. Questo richiede di guardare il mondo come un intero, senza suddivisione in Stati, per esaminare sia processi diacronici (storici), sia gli studi sincronici delle dinamiche
Gli studi per la pace si interessano di genere, generazione e di queste altre distinzioni sociali, tanto quanto degli Stati. Il sistema statuale non ha alcun monopolio sul conflitto, la violenza, la guerra e la pace, né le RI hanno alcun monopolio sugli studi per la pace. Essi riguardano la condizione umana in generale, la nostra piena realizzazione (nella terminologia del Canone p?li del buddhismo: sukha) come esseri umani attraverso la pace positiva e la riduzione della sofferenza (dukkha) mediante la pace negativa, indipendentemente da come le catene causali o cerchi e spirali, o che altro, ruotano o tessono i loro percorsi attraverso la multiforme umanità.
TRANSDISCIPLINARITÀ NEGLI STUDI PER LA PACE
La conseguenza di questa visione sistemica più ampia è che dobbiamo puntare alla trans-disciplinarietà attraverso tutti i livelli della condizione umana, non semplicemente una somma multidisciplinare dell’attenzione e pregiudizio mono-livello di ogni singola disciplina delle scienze sociali. La somma di una manciata di visioni limitate o distorte non fornirà una chiara panoramica o integrata comprensione dell’insieme. Detto questo, c’è molto da imparare da ogni disciplina. Quelle che seguono sono alcune “gemme” sociali dal taccuino dell’autore.
Dalla psicologia arriva la nozione che siamo diretti, o almeno guidati, da forze all’interno di noi stessi di cui non siamo consapevoli (che si tratti dei processi biochimici del cervello o dei processi informativi del nostro subconscio). La consapevolezza di tali forze può essere liberatoria, in quanto esalta il fatto che la libertà sta nello scegliere le proprie linee guida. Tuttavia, gran parte di questa psicologia psicodinamica si è concentrata sulla psicopatologia e sarebbe utile se fosse più sviluppata la psicologia positiva.
La sociologia contribuisce con l’osservazione che i processi o i rapporti interattivi possono essere benefici o no, equi o no, e che essi possono combinarsi variamente in strutture, spesso con piramidi (strutture gerarchiche) e cerchi (processi ciclici) come blocchetti di costruzione. L’antropologia chiarisce che la varietà culturale dell’umanità è immensa e ci fa notare le differenze tra “cultura dell’Io” e “cultura del noi” come parte della fondazione della struttura e del processo sociale.
La scienza politica rivela le differenze tra forme di potere dure e morbide: economico (ricompensa), militare (punizione), culturale (persuasione) e politico (processo decisionale). La politica di pace si basa sullo sviluppo di forme morbide di potere attraverso istituzioni eque, difensive, pacifiche e democratiche, centrate sui bisogni e i diritti umani fondamentali.
L’economia dimostra che ci sono alternative alle economie dominanti e modi di regolamentare e scambiare del tutto adeguate al compito di garantire il benessere per tutti gli esseri umani sulla terra con l’equilibrio ecologico. Le RI identificano i successi in ambito politico come l’inclusione della Germania nella Comunità Europea e il progetto della conferenza di Helsinki per un nuovo inizio dell’Europa, più speranzosa rispetto ai numerosi fallimenti. La storia insegna che ci sono punti di ramificazione in tutte le storie dove altre opzioni avrebbe potuto essere colte e che le storie contro-fattuali possono essere importanti quanto quelli fattuali. Il diritto, il diritto internazionale e i diritti umani sono possenti modi per proiettare un’immagine della società o del mondo buona-pacifica sullo schermo del futuro, sollevando domande fondamentali sui bisogni fondamentalii, la cultura e la struttura profonde e sfidando lo status quo.
Innumerevoli altri esempi di contributi delle scienze sociali agli studi per la pace potrebbero essere citati. Qui il punto fondamentale è solo quello di suggerire come intuizioni che hanno origine all’interno di una disciplina possono trasferirsi a quella contigua, cosicché l’attenzione a una tematica trans-disciplinare come la pace genera trans-disciplinarità.
Purtroppo, gli studi per la pace spesso sono in difficoltà quando si adottano operativamente particolari modelli e approcci da una gamma di scienze. Piuttosto che far luce su complesse questioni sistemiche, questi modelli semplificano eccessivamente e presumono che un solo livello di analisi detenga la chiave. Ci sono una varietà di approcci riduzionistici alla pace che illustrano i dilemmi nello sviluppo di un approccio veramente transdisciplinare.
Per esempio, un presupposto comune della psicologia è che raggiungere “la pace corrisponda a guarire un trauma.” Certamente, affrontare l’impatto psicologico e sociale del trauma è necessario, ma è tutt’altro che sufficiente. Dato il principio di homo mensura, affrontare traumi individuali è necessario, ma come la riabilitazione generale degli esseri umani dopo la violenza, o la ricostruzione delle case distrutte dalla guerra, questo comporta un annullamento del danno, riducendo o eliminando alcuni degli effetti della violenza, ma non affronta le cause che generalmente si trovano da qualche parte in un conflitto irrisolto.
Un’altra convinzione comune nella psicologia è che, “la pace è raggiunta attraverso il raccontare la tua storia”. Ancora una volta, riuscire a narrare la propria esperienza di sofferenza e ingiustizia può essere utile per la guarigione di traumi, ma non è necessario, né sufficiente per la pace. Con una buona soluzione, o trasformazione, del conflitto alla radice, emozioni e cognizioni negative tendono a essere smussate, retrocedendo nello sfondo. Le narrazioni del conflitto e dell’ingiustizia passata, quando siano presentate nello spazio pubblico possono riaccendere il conflitto. È essenziale non confondere ciò che è buono per l’individuo con ciò che è buono per la composizione del conflitto.
Tra i professionisti di risoluzione dei conflitti, a volte c’è il presupposto che pace è uguale a conciliazione. La conciliazione è per la violenza quello che la mediazione è per il conflitto: la mediazione allenta i nodi dell’incompatibilità, la conciliazione sgombra il passato dal trauma, chiude una situazione e apre a un futuro di progetti congiunti con una pace negativa come progetto minimo. Entrambi sono indispensabili, ma devono essere seguite da progetti comuni che costruiscano la pace.
Dal punto di vista politico, alcuni assumono che, “la pace è assicurata dalla presenza della democrazia.” Nei fatti, governo o istituzioni democratiche non sono né necessari né sufficienti per la pace. Ci vuole capacità di trasformazione nonviolenta del conflitto, ma non arriva automaticamente con elezioni eque e libere. Una prospettiva militare minimalista potrebbe “equiparare la pace con il cessate il fuoco.” Mentre l’assenza di violenza è bene in sé, un cessate il fuoco può anche servire al riarmo e al riposizionamento per la fase successiva della guerra. Inoltre, la mediazione può procedere parallela ai combattimenti.
Per molti, il perseguimento della “pace è sinonimo di lotta per i diritti umani”. Tuttavia, per come è attualmente interpretata, la protezione locale dei diritti umani non è né necessaria né sufficiente per la pace globale. Uno stato bravo nel rispettare i diritti umani dei suoi cittadini può richiedere anche un ritorno in doveri umani, compreso il dare la propria vita allo stato. È necessaria la trasformazione dei conflitti che non si ottiene automaticamente con la concezione dei diritti umani attualmente dominante.
Dal punto di vista delle organizzazioni dei diritti umani e di altri organismi internazionali, il “percorso verso la pace passa attraverso la denuncia della violenza”. Il monitoraggio e la descrizione della violenza sono necessari – la verità dovrebbe essere nota – ma possono anche essere controproducenie alimentando la spirale della violenza. Quel che è anche necessario è un giornalismo di pace: chi sono le parti reali del conflitto? Quali sono i loro obiettivi? Dove e come questi obiettivi si scontrano? E quali sono le proposte di soluzioni, da persone a tutti i livelli del sistema sociale, basate su diverse esperienze sia entro la situazione di conflitto sia altrove?
Molti sono convinti che, “lo sviluppo economico e sociale porterà alla pace”. Se lo sviluppo comprende la costruzione delle capacità di trasformazione nonviolenta del conflitto, la pace sarà un risultato. Tuttavia, se lo sviluppo intensifica semplicemente il desiderio di più ricchezza e risorse materiali, la conseguenza può essere più guerra anziché pace.
Come suggeriscono i miei commenti su ciascuno di questi approcci alla pace, la costruzione della pace ha una propria logica e specifici requisiti. Alla fine, non c’è nessun sostituto per l’analisi o la “diagnosi” del conflitto e l’articolazione di proposte specifiche di soluzioni o trasformazioni (Galtung, 2008).
GESTIRE IL CONFLITTO: LA NECESSITÀ DELLA TRANS-DISCIPLINARITÀ
Applichiamo ora questo pensiero su conflitto, pace e loro relazioni a un grave problema dei nostri tempi, legato alla psichiatria transculturale e anche al di là di tale campo. E’ successo qualcosa di nuovo nel modello di morbilità in tutto il mondo.
Secondo l’organizzazione mondiale della sanità (OMS, 2008), i disturbi mentali giocano oggi un ruolo importante. Non ci proponiamo di analizzare la metodologia usata per giungere a questa conclusione, ma solo prendere atto che la depressione unipolare è malattia numero uno nel mondo per entrambi i sessi, con alcune varianti, e che la depressione bipolare, disturbo maniaco-depressivo, è il numero quattro. Tra questi due ci sono disturbi somatici che rendono le persone incapaci di gestire il loro lavoro per brevi o lunghi periodi (la definizione di morbilità da malattia), ma tra questi molto comuni disagi somatici, come il dolore cronico, possono esserci anche espressioni di depressione. I disturbi mentali sono ancora circondati da tabù.
Il modello per la morbilità e la disabilità non è lo stesso che il modello per la mortalità. La maggior parte delle persone non muoiono per la depressione (anche se il suicidio può essere un esito letale della depressione). Sebbene la separazione epidemiologica fra le diffuse malattie contagiose delle società tradizionali e le malattie della modernità (come cancro e malattie cardiovascolari) sia stata in parte colmata dall’AIDS, essa è ancora una distinzione utile perché correlata con il livello di modernità. E’ interessante osservare che il nuovo modello di morbilità attraversa il cosiddetto divario Nord-Sud. Gli Stati Uniti e la Colombia sono in prima fila tra i paesi americani con prevalenza di disturbi d’ansia (The World Health Organization Consortium for Surveys, Consorzio per i sondaggi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 2004). Difficilmente avremmo visto questa situazione così chiaramente una generazione fa. Qualcosa è successo.
In primo luogo prendiamo nota che ciò pone una sfida enorme per i medici dell’anima – psicologi e psichiatri. Improvvisamente essi sono catapultati alla ribalta. Non è chiaro se le professioni siano all’altezza della sfida. La tendenza in psichiatria e psicologia è quella di collocare la diagnosi e il trattamento all’interno dell’individuo, che è visto come l’elemento portante del disturbo o della malattia. Se si tiene conto del contesto, di solito è solo l’ambiente più vicino. Ma la depressione può coinvolgere schemi molto più grandi. Tuttavia, per accorgercene, abbiamo bisogno di espandere i significati di “depressione”.
Ecco il mio primo sforzo: la depressione è una sorta di paralisi di azione che si verifica quando i nostri obiettivi e sforzi appaiono insignificanti. Diminuisce il livello di energia vitale, la temperatura corporea diminuisce, la produzione di energia diminuisce perché la bassa domanda riduce l’afflusso. Che cosa è successo? Se prendiamo come diagnosi “mancanza di conoscenza interna ed esterna, apatia, paralisi dell’azione, mancanza di senso,”, qual è la terapia adatta e quale sarebbe una efficace profilassi?
Anche se ho descritto il problema in termini di stato mentale dell’individuo, questo non è un modello a un singolo fattore, ma anzi coinvolge quattro fattori molto diversi, uno per ciascuno dei quattro livelli di organizzazione della condizione umana:
• Micro, entro e tra gli individui, specialmente coloro che sono più vicini a noi;
• Meso, all’interno del paese, tra i generi, tra generazioni, tra classi, tra nazioni;
• Macro, tra paesi, tra nazioni; e
• Mega, tra regioni, tra civilizzazioni.
Questo è un approccio multi-livello alla salute mentale. Esso riconosce che parte dell’eziologia della depressione è ben oltre il livello micro in cui le discipline “psi” si specializzano, e significa che si trova fuori portata dell’intervento psicologico diretto.
E’ qui che entrano in gioco gli studi per la pace, non solo come approccio transdisciplinare, ma anche come approccio multi-livello. Dobbiamo utilizzare modelli tratti da tutti e quattro i livelli, analizzando le sinergie nei processi a ogni livello, i collegamenti causali attraverso i livelli, e gli isomorfismi tra livelli.
Un modello generale per il conflitto si può trovare nel libro Transcend & trasform (Galtung, Pluto Press 2004; ed. it. Affrontare il conflitto, PLUS, Pisa 2008). Brevemente: X vuole qualcosa come obiettivo; lo stesso avviene per Y; gli obiettivi sembrano essere incompatibili; X e Y quindi vedono l’altro come fonte di frustrazione e trabocca l’aggressione. Oppure, quando X=Y e la frustrazione è rivolta verso l’interno, l’aggressione è diretta contro la propria persona. Tutti sperimentiamo questa sorta di conflitto a livello micro quasi continuamente. A volte si manifesta come violenza verbale, accompagnata dal linguaggio del corpo, a volte come violenza fisica. A volte è diretta internamente come violenza contro un obiettivo; a volte anche come violenza contro l’idea stessa di avere un obiettivo.
Nei conflitti tra due parti ci sono sempre cinque possibili esiti: (1) X ottiene ciò che vuole e Y nulla; (2) Y ottiene ciò che vuole e X nulla; (3) entrambi rinunciano ai loro obiettivi o demandano tutto a una terza persona; (4) raggiungono un accordo intermedio; o (5) forse con un piccolo aiuto, essi creano una realtà nuova, dove X e Y possono sentirsi entrambi a casa. Io chiamo questa possibilità finale “trascendenza positiva.” Queste sono le possibilità – e alcune di loro possono essere soluzioni, con l’accettazione di tutte le parti coinvolte e la sostenibilità.
Purtroppo, poche persone sono consapevoli di tutte queste opzioni. Molti si limitano a soluzioni monotipo “Devo essere sempre il vincitore,” o “Io sono il perdente permanente;” oppure sono limitati a due sole possibilità: “o tu o me,” tertium non datur. Con queste opzioni limitate, la depressione è dietro l’angolo. Quando s’immaginano tre possibili soluzioni, la situazione è leggermente migliore: c’è anche la possibilità di un compromesso, trovando qualcosa d’intermedio. Ma nel compromesso c’è inoltre un elemento di capitolazione. La trascendenza negativa e positiva, tuttavia, richiede immaginazione e creatività. Che cosa dobbiamo fare affinché questo diventi parte della nostra cultura, che sia insegnato nelle scuole? Possiamo usare questo modello di base a tutti i quattro livelli di organizzazione, e ho presentato 10 studi di caso per ognuno dei 4 livelli (Galtung, 2008).
Comprendere i conflitti a livello meso richiede modelli diversi. Per risolvere questo problema, ho lavorato con le forme geometriche semplici della piramide e del cerchio come rappresentazioni della struttura del sistema. Nel cerchio tutte le posizioni sono uguali, nella piramide c’è un alto e un basso. Chiamiamo la struttura verticale della piramide alfa e quella orizzontale del cerchio beta. In alfa, il risparmio di relazioni è ottenuto a scapito della verticalità; in beta, l’orizzontalità è ottenuta a costo di molto lavoro di relazione. Le due strutture, alfa e beta, quindi costituiscono un dilemma, ma esploriamolo attraverso un tetralemma, siccome ciascuno di essi può essere forte o debole:
• Alfa debole, beta forte: Equiarchia, società su piccola scala
• Alfa forte, beta forte: Poliarchia, società tradizionale
• Alfa forte, beta debole: Gerarchia, società moderna
• Alfa debole, beta debole: Anarchia, società postmoderna
Tutte le società hanno tutte e quattro le strutture, ma il centro di gravità si sposta nel tempo.
“Piccolo è bello” punta in direzione di equiarchia, ma in relazione al mondo sociale più grande l’equiarchia ha un effetto di marginalizzazione perché è diretta verso l’interno. Il riconoscere che è importante creare strutture più grandi punta in direzione di Poliarchia, ma questo rischia di sovraccaricare il lavoro di relazione. Clan, famiglie estese, villaggi, feudalesimo, i militari e la Chiesa – los poderes facticos, oggi in forma di stato, multinazinali e università – sono gerarchici, sfruttano, tolgono potere. Infine, l’anarchia può essere sotto-impegnativa tanto quanto la Poliarchia è eccessiva nelle sue esigenze.
Queste strutture sociali corrispondono a quattro modi di diventare depressi. La terapia appropriata adatta, muove il sistema verso un equilibrio nel mezzo o ristabilisce un ritmo di rotazione funzionale fra le quattro strutture. Quando, nel 1975-76, lavoravo come consulente sulla metodologia dello studio internazionale WHO-OMS sulla schizofrenia, la mia osservazione generale era che l’individuo esposto a un sistema sociale con struttura “alfa forte e beta debole” (che caratterizza le società moderne, urbane, industriali) era particolarmente vulnerabile a un risultato scadente. Qui questo schema viene espanso per riconoscere quattro tipi di violenza strutturale, oltre quella della gerarchia: il sovraccarico della Poliarchia, l’emarginazione dell’ equiarchia e la solitudine dell’anarchia.
Il LIVELLO MESO fornisce agli individui focalizzazioni sull’identificazione come classe economica (marxismo) e genere (femminismo). Se l’identificazione è forte, il declino del proprio gruppo è deprimente. L’analisi del livello meso rende le persone consapevoli che le vittime delle strutture profonde a cui partecipano sono parte dei loro taciti mondi sociali.
Il LIVELLO MACRO riguarda i conflitti che si verificano tra Stati e tra nazioni. Il livello di analisi macro affronta i processi di forte identificazione con il proprio paese (patriottismo) e la proprio nazione (nazionalismo). Questo livello coinvolge paesi che giocano a carte con gli esseri umani, attraverso guerre e giochi letali che si lasciano dietro milioni di perdenti con ferite profonde nelle loro anime.
Procedendo verso il LIVELLO MEGA, molti potrebbero aver l’impressione che ora siamo un po’ discosti dall’individuo, ma questo non è affatto il caso. Si consideri che la piccola, sicura, evangelico-luterana Norvegia circa di due secoli fa, si protesse costituzionalmente contro coloro che credevano nel giudaismo e i gesuiti. Oggi, la prevalenza di stili di vita e forme di credenza ancor più divergenti, in un paese come la Norvegia, è un’ovvia conseguenza della sempre maggiore estensione di trasporti e comunicazioni, forze che rendono la globalizzazione in definitiva inevitabile, che ci piaccia o no.
Questi modi di vita si accosteranno ancor più, fin nella nostra anima. E saranno molti, non solo i musulmani, come suggeriscono le narrazioni multimediali dominanti. Se ci aggrappiamo all’identità alla quale siamo abituati, presto ci sveglieremo rendendoci conto che non siamo a casa nell’età della globalizzazione. E a questo punto, diventa importante avere più opzioni di “noi o loro”, che il problema sia dove posizionare le moschee in ambiente urbano o le dottrine della fede nella nostra anima. Abbiamo imparato che “solo noi”, l’intolleranza, è incompatibile con i diritti umani e che la tolleranza, “uno spazio pure per loro”, non è abbastanza buono. Il passo successivo è il dialogo, “tu sei diverso da me, che emozione!” Brainstorming, rispetto, curiosità. Non abbiamo nulla da perdere nel fare questo passo, solo molto da guadagnare, molto arricchimento.
C’è anche una quarta fase, l’apprendimento reciproco, che possiede la chiave per il futuro. Prendiamo le tre religioni abramitiche come esempi, siccome sono vicine a noi e tra di loro. Estraiamo qualcosa del meglio da tutte quante, principi che includono i seguenti punti:
Dall’Ebraismo: dialogo, verità come un processo, non come una dichiarazione.
Dal Cristianesimo Ortodosso: ottimismo, la prospettiva a lungo termine, che attraversa i secoli.
Dal Cristianesimo Cattolico: la distinzione tra peccato e peccatore.
Dal Cristianesimo Protestante: il principio di qui io sto, non posso fare altrimenti.
Dall’Islam: l’Islam è uguale a pace, che equivale a sottomissione; Zakat, condivisione con coloro che stanno soffrendo; e la saggezza espressa nella Sura 8:61, “quando il vostro antagonista inclina verso la pace fate lo stesso.”
C’è molta saggezza in ciascuna di queste tradizioni. Dobbiamo essere liberi di raccogliere dalla saggezza del mondo e globalizzare le enormi intuizioni che l’umanità ha prodotto. Fatichiamo sotto il peso dei quattro strati dell’esistenza umana, che a volte pesano molto su di noi. Oltre alle strutture sociali deprimenti che ci lasciano sovraccaricati o privi di sfide, noi potremmo identificarci in modo forte con un paese in declino così che la depressione del paese diventa la depressione dell’individuo. Potremmo essere minacciati, o arricchiti, dall’incontro con visioni del mondo e modi di essere molto diversi. E spesso siamo incapaci di CREARE QUEL PICCOLO PEZZO DI NUOVA REALTÀ che può sciogliere anche i conflitti duri, resistenti alle soluzioni attraverso il “sial’uno-sia l’altro” della trascendenza positiva.
Le discipline “psi” possono fornire un servizio enorme al mondo in quanto esse si aprono a tutta la gamma di questioni che possono sottendere il problema della depressione. Se non si avvicinano ai molteplici problemi della depressione con coraggio e ottimismo, nessun altro lo farà. E noi sappiamo quale sarà il risultato: un arcobaleno di pillole multicolore, che ostacolano una comprensione più profonda.
Ringraziamento
Questo articolo è basato su due colloqui dati presso il McGill Advanced Study Institute in Cultural Psychiatry (Istituto McGill sullo studio avanzato di Psichiatria) su “Cultura, pace, conflitto e riconciliazione”, Montreal, 29 aprile e 1° Maggio 2008.
Note:
Galtung, J. (2004). Transcend and transform: An introduction to conflict work. Boulder, CO: Paradigm. (Ed. it.: Affrontare il conflitto, PLUS, Pisa 2008).
Galtung, J. (2008). 50 Years – 100 peace & conflict perspectives. TRANSCEND University Press.
World Health Organization (WHO) (2008). The global burden of disease: 2004 update. Geneva: WHO.
World Health Organization Survey Consortium, The (2004). Prevalence, severity, and unmet need for treatment of mental disorders in the World Health Organization World Mental Health Surveys. Journal of the American Medical Association, 291, 2581–2590.
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Traduzione per il Centro Sereno Regis a cura di Giorgio Barazza e Miky Lanza
Titolo originale: Peace Studies and Conflict Resolution: The Need for Transdisciplinarity.
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