(Italiano) Le radici della nonviolenza
ORIGINAL LANGUAGES, 9 Feb 2015
Lorenzo Guadagnucci, Altreconomia – TRANSCEND Media Service
Il 30 gennaio cade l’anniversario dell’uccisione di Mohandas Gandhi. L’azione del leader indiano s’ispirò al giainismo, una religione nata nello Stato del Gujarat, di cui è stato governatore l’attuale premier indiano Narendra Modi.
Il villaggio sembra un unico, indistinto mercato. Le strade in terra battuta sono ricolme di persone, che scorrono davanti a una serie infinita di banchi coperti di mercanzia. Barbieri e sarti si affacciano sulla via dai modesti laboratori. È un viavai incessante, molto tipico dell’India. Sorprendono, in questo piccolo centro sulla strada che conduce da Udaipur ad Ahmedabad, i numerosi manifesti che raffigurano un giovane uomo praticamente nudo. Non mostra niente di sconveniente e sorride con sguardo placido. Il manifesto, dal poco che si intuisce, annuncia un evento fissato per qualche giorno dopo.
Il giovane uomo nudo e sorridente è Sukul Malnandi, monaco giainista fra i più conosciuti della zona, ed è possibile incontrarlo, in una sorta di tempio-convento poco lontano. La struttura è più che sobria, quasi fatiscente; il monaco riceve in una stanza spoglia, senza mobilia, seduto nella posizione del loto sopra una piattaforma di legno. È completamente nudo. Racconta in poche parole la sua storia. Il desiderio di dedicarsi alla vita religiosa fin dall’età di sei anni: “Era il sogno di qualcosa venuto dalle mie vite passate”. Il distacco dalla famiglia avviato all’età di 14 anni, sotto la guida di un guru; la vita quotidiana senza possedere nulla, nemmeno i vestiti. Sukul Malnandi oggi ha 36 anni, ed è un monaco appartenente ai Digambara, una delle due correnti del giainismo (l’altra è la Svetambara). I monaci Digambara sono detti “vestiti di cielo”, proprio per la scelta di spingere fino in fondo il voto del non possesso. Girano nudi, avendo l’accortezza, quando posano per i fotografi o sono ripresi dalle telecamere, di coprire le parti intime con una scopetta di piume di pavone, uno dei pochi oggetti che portano sempre con sé, insieme con un recipiente per l’acqua e in certi casi una mascherina per coprire la bocca. La scopetta e la mascherina servono a evitare di schiacciare insetti o ingerire, senza volere, vite microscopiche.
Il voto di nonviolenza, per chi sceglie la vita religiosa, è assoluto. I monaci vivono camminando e si fermano solo nella stagione dei monsoni, dormono per terra, mangiano una volta al giorno il cibo (solo vegetali) che viene loro offerto, non si tagliano ma si strappano i capelli. Così testimoniano e predicano la loro fede, un’ansia di comunicazione che li porta a utilizzare tutti gli strumenti disponibili, dai manifesti affissi per strada al web.
Conoscere Sukul Malnandi, permette di vedere il giainismo da vicino. Questa religione, praticata soprattutto nella parte occidentale dell’India, con epicentro in Gujarat, ha una certa notorietà nel mondo occidentale per la sua dottrina della “ahimsa”, la nonviolenza. E Mohandas Gandhi, che era nativo del Gujarat, ne trasse ispirazione per la sua filosofia politica.
Nato nel VI secolo avanti Cristo, nello stesso periodo e nelle stesse zone del buddismo, il giainismo è oggi praticato da qualche milione di persone. I giainisti credono nella reincarnazione e vedono come compimento assoluto del proprio percorso la piena purificazione da tutte le vite precedenti, fino al punto della liberazione dai vincoli della materia. Ma è il profilo etico e sociale a fare del giainismo una filosofia che si presta a una lettura contemporanea con forti risvolti politici, per la sua matrice ambientalista, pluralista e -appunto- nonviolenta. Le regole dettate per la vita religiosa -rispetto per tutte le forme di vita, sincerità, castità, rifiuto dell’avidità- sono le stesse previste per i laici, ma in forma attenuata, affinché siano compatibili con la vita quotidiana di ciascuno. Perciò non si deve immaginare che il Gujarat sia affollato di persone che camminano spazzando il terreno davanti a sé per evitare di calpestare un insetto, ma di certo in area giainista è impossibile trovare una macelleria e nei ristoranti delle città sono indicati nei menu e nei buffet i piatti “non vegetariani”. Chi entra nei templi deve spogliarsi di qualsiasi oggetto in pelle. Il voto del non possesso e della non avidità si traduce, nella vita civile, in una diffusa moderazione nell’accumulare ricchezze, e in una grande generosità nelle donazioni alla comunità, denari utilizzati per opere sociali, strutture sanitarie, rifugi per animali.
Il giainismo, storicamente, si è radicato fra i commercianti e quindi non sorprende più di tanto che uno dei giainisti più in vista nella vita civile sia Anshu Jain, co-presidente di Deutsche Bank, residente a Londra. C’è da chiedersi semmai in che misura Jain riesca a rispettare la regola del rifiuto anche indiretto della violenza: forse Deutsche Bank non finanzia l’industria delle armi, né quella della carne? E ci sarebbe da capire come concili i dettami della sua fede con gli enormi guadagni che realizza. Le contraddizioni, evidentemente, sono dietro l’angolo, ma l’attitudine del giainismo al rispetto attivo di tutte le creature, alla mitezza, all’altruismo, favorisce una lettura politica moderna in chiave pacifista e ambientalista. Tanto più che la sua dottrina della pluralità dei punti di vista, così distante dalla logica tipica dei monoteismi, la tiene lontana da qualsiasi forma di assolutismo, una delle caratteristiche delle grandi religioni.
Gandhi, dunque, si ispirò al giainismo, ma non si può certo dire che la sua lezione sia stata seguita dall’India contemporanea. L’avvento di Narendra Modi, eletto premier del maggio scorso, è in questo senso rivelatore, e dà la misura della distanza che separa l’India attuale da quella agognata dal Mahatma.
Modi e Gandhi hanno in comune proprio il Gujarat, del quale l’attuale premier è stato a lungo governatore. Ma i due personaggi non potrebbero essere più diversi, quasi due simboli di idee opposte di ciò che deve intendersi per sviluppo.
A Modi viene riconosciuto il merito di avere modernizzato lo Stato, aprendolo agli investimenti interni ed esterni, e i suoi primi passi da premier indicano la sua volontà di proseguire il percorso. Niente di più lontano dalle idee di Gandhi, che sognava un sistema economico radicato nelle campagne indiane, decentrato, cooperativo. Modi nel settembre scorso ha compiuto un reclamizzato viaggio d’affari negli Stati Uniti, ma prima d’essere eletto premier era per Washington “persona non grata”, perché accusato di non essere intervenuto, nel 2002, per fermare il massacro di cittadini di religione musulmana da parte di bande di estremisti induisti. Tutto nel Gujarat del Mahatma, che si oppose fino all’ultimo alla separazione su base religiosa e alla nascita del Pakistan.
Bisogna arrivare ad Ahmedabad, però, per trovare una traccia tangibile di ciò che resta nell’India odierna delle dottrine del Mahatma. L’università Gujarat Vidyapith, sotto questo punto di vista, è un’oasi etica, culturale e politica in forma di campus. Fu fondata nel 1920 da Gandhi nel pieno della lotta per l’indipendenza. Il Mahatma era convinto che il distacco dall’impero coloniale britannico, per avere un esito duraturo, dovesse poggiare sull’autonomia spirituale e culturale del popolo indiano. Perciò si decise a fondare un’università nella città -che oggi conta 3,5 milioni di abitanti- in cui aveva scelto di stabilirsi al rientro dal Sudafrica nel 1915. “Questa università -spiega il vice rettore Sudarhan Iyengar- fu fondata avendo presenti tre obiettivi: la liberazione dagli inglesi, la liberazione della società dalle cattive pratiche, la liberazione della persona”.
Oggi la Gujarat Vidyapith è un ateneo riconosciuto dallo Stato, specializzato in scienze umane, ma con sezioni dedicate alle tecnologie e all’informatica. Il principio ispiratore è naturalmente la nonviolenza, nelle sue varie espressioni, da quale etica a quella economica, al punto che la Vidyapith cerca di autoprodurre tutto ciò che può, dall’energia alle divise per gli studenti, dal cibo ai materiali di cancelleria in carta riciclata.
L’inizio di ogni giornata di studio indica quanto sia speciale l’università gandhiana. Studenti e professori si ritrovano ogni giorno alle 8 nell’aula magna, un padiglione coperto circondato da grandi alberi: seduti nella posizione del loto, tutti insieme intonano un canto melodioso. È un momento molto emozionante di comunità e condivisione. E subito dopo un curioso ticchettio rompe il silenzio: sono le scatole di legno che vengono aperte e si rivelano strumenti per filare il cotone (i “charka”). La filatura impegna tutti per mezz’ora, prima dell’avvio delle lezioni. Gandhi filava ogni giorno, come forma di autodisciplina, ma anche per ragioni politiche: l’autoproduzione del cotone era una sfida all’industria tessile britannica, che aveva strangolato le tradizionali produzioni indiane. Gli studenti della Vidyapith sono tenuti a filare per 60 ore a trimestre e il cotone così ottenuto viene utilizzato dall’università per confezionare le divise.
Alla Vidyapith esiste un Istituto della nonviolenza che svolge attività di ricerca sulla soluzione creativa dei conflitti. Qui, nonostante l’India corra in direzione contraria, le idee di Gandhi sono considerate una risorsa preziosa per il futuro. Dice il professor Iyengar: “Il capitalismo non hai fatto davvero i conti con gli enormi problemi che produce, penso alla distruzione dell’ambiente, all’enorme concentrazione di ricchezze in poche mani, all’ingiustizia sociale. Seguendo l’insegnamento di Gandhi -l’autocontrollo, la sobrietà, il rispetto per tutte le forme di vita- ci sarebbe l’opportunità di costruire una società più giusta, più armoniosa, più sostenibile”.
L’ultima doverosa tappa ad Ahmedabad è al Sabarmati Ashram, il luogo dove Gandhi visse dal 1915 fino al 1933, e che fa di questa città una capitale della nonviolenza. L’ashram è nella prima periferia urbana, lungo il fiume Sabarmati. La modestia delle costruzioni è la stessa di allora. In queste stanze nude, nella modesta cameretta del Mahatma, sotto le piante che circondano la struttura principale, furono pensate e organizzate molte delle azioni che punteggiarono la lunga lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Da qui, il 12 marzo 1930, il Mahatma partì con 78 seguaci alla volta di Dandi, sul Golfo di Cambay, dove arrivò 25 giorni dopo: era la Marcia del sale, un evento che ha cambiato la storia dell’India. Il Gujarat, nonostante tutto, custodisce ancora i semi della nonviolenza, la storia dirà se ci saranno altri frutti.
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