(Italiano) Pericolo di guerra. Che fare?
ORIGINAL LANGUAGES, 31 Oct 2016
Enrico Peyretti – Centro Studi Sereno Regis
27 ottobre 2016 – L’opinione pubblica internazionale assiste impotente allo scivolamento verso scenari di guerra aperta, in assenza di una mobilitazione che ottenga per tempo dai governi saggi passi indietro. Non c’è solo il terrorismo nella “guerra mondiale a pezzi” da tempo in corso, che può condurre a esiti incontrollabili. Sentiamo questo allarme, che sollecita riflessioni, dibattiti, impegno. Ma è davvero immaginabile un confronto militare diretto tra Occidente e Russia? Cosa si può fare?
Non porta molto avanti l’analisi delle diverse responsabilità nella storia, sia prima sia dopo la fine della Guerra Fredda, nel 1989, seguita da nuove guerre di interessi, mascherate da “guerre di civiltà”, come confessava il Nuovo modello di difesa italiano del 1991. Non serve a molto accusare di più l’influenza o dominio geopolitico occidentale, o di più l’espansionismo rivendicativo della Russia umiliata (trattamento sempre pericoloso). Serve che i popoli ottengano che tutti abbassino le minacce e le contro-minacce.
Che fare? La grande mobilitazione mondiale del 15 gennaio 2003 e la campagna popolare delle bandiere non impedì la 2a guerra all’Iraq. Allora, siamo impotenti? Mail-bombing sui governi? Preghiere in piazza delle varie religioni? Digiuni pubblici, non come ricatti, ma assunzione del dolore su di sé per toccare le coscienze? Messaggi al “nemico” per indurlo al dialogo? Elezione di un “ministro della pace”, come chiedevano Aldo Capitini e, in Parlamento, Tullio Vinay (cfr. il mio La politica è pace, Ed. Cittadella 1998, pp. 46-49)? Una dichiarazione-richiesta di pace concordata al “nemico” dell’Occidente, Putin? Una uguale dichiarazione-richiesta all’alleato Usa?
Sappiamo già che nessun segno o manifestazione è visibile se non ha forza sui media! Inchinarsi alle regole dei media?
L’azione più profonda che può avvenire è l’evoluzione mentale-morale (ciascuno in se stesso perché cresca in tutti) dalla ideologia della fatalità della guerra alla capacità di trasformazione-soluzione nonviolenta dei conflitti. Non è utopia disperata perché la cultura corrente ha ancora da scoprire la storia del “sangue risparmiato” (Anna Bravo), occultata dal fracasso delle guerre e da chi le celebra. Ci sono storie consistenti di lotte nonviolente, mezzi giusti per la giustizia, poco conosciute e considerate.
In questo impegno sappiamo bene che la giustizia non è affermata nella storia se non come frammenti profetici, apparizioni e non installazioni vincenti, ma sempre come tensione-aspirazione insopprimibile, nerbo e orizzonte della storia pur oscillante, ubriacata da qualche follia.
Ma oltre i tempi profondi e lunghi, occorre agire e proporre decisioni sui tempi brevi, perché troppe vite soffrono e muoiono, offese e vilipese, la storia umana è deviata dal suo senso, l’umanità intera è minacciata. Perché possa avvenire questa evoluzione umana bisogna rimuovere la causa che blocca il riconoscimento reciproco e divide l’umanità: la causa è la volontà di potenza, il capitalizzare ricchezza anche a danno altrui, la conquista di ricchezze sottraendole ad altri, l’influenza sulle terre ricche di risorse sottratte a chi le abita, e tutto ciò nella sottoconsiderazione dell’umanità altrui. Francesco vescovo di Roma, sull’aereo per la Polonia, il 27 luglio 2016, ha detto: «C’è guerra di interessi, c’è guerra per i soldi, c’è guerra per le risorse della natura, c’è guerra per il dominio dei popoli: questa è la guerra. Qualcuno può pensare: “Sta parlando di guerra di religione”. No. Tutte le religioni vogliamo la pace. La guerra, la vogliono gli altri. Capito?». È un’accusa al capitalismo liberista, della libertà senza giustizia.
Il problema della guerra – che è solo la più vistosa e ripugnante delle tre forme della violenza (diretta, strutturale, culturale) – è problema antropologico: quale relazione tra gli umani? Soci (socialismo non imposto) o rivali (competizionismo sfrenato)?
Ed è perciò problema politico: della “polis”, della città, dei “molti insieme”, del “mio” che non è contro il “tuo” perché sono entrambi il “nostro”. L’obbligo reciproco è originario (Simone Weil), prima del contratto sociale, perciò prima di rapporti politici imposti dal più forte. Nella politica umana la libertà è indivisibile: io non sono libero se non lo sei anche tu, e anche lui. Ed è la giustizia – assicurare ad ognuno la sua dignità, la possibilità di vita umana – che regola la libertà, che rende liberi. Non è la libertà di “libere volpi fra libere galline”, cioè il “lasciar fare” tra forti e deboli, che possa produrre giustizia, e dunque pace giusta.
Il problema della pace nei rapporti politici è passare dal “potere su” al “potere di”, riconosciuto a tutti. Trasformare gli uomini da rivali a soci, è opera immane di maestri, di cultura, etica, mistica, spiritualità. È opera di tutto ciò, e anche della analisi critica dei fatti e dei movimenti sociali, purché vedano le dimensioni profonde della evoluzione che deve salvare l’umanità dall’autodistruzione. In questa linea propositiva, uno scritto di Nanni Salio del novembre 2015, quasi suo testamento morale-politico, presenta le alternative nonviolente ai «due terrorismi», quello di stato, quello ribelle, con proposte per il medio periodo e per il medio-lungo.
Salio conclude: «Tutte queste misure possono essere ampliate e perfezionate ulteriormente. Per far ciò “non basta la vita” di una singola persona, per quanto geniale, creativa, amorevole come quella dei grandi maestri che ci hanno preceduto, da Gandhi a Martin Luther King, da Danilo Dolci ad Aldo Capitini, da Buddha a Gesu’. E’ un compito collettivo dell’intera umanità, possibile, doveroso, entusiasmante, per mettere fine alla violenza nella storia e far compiere un salto evolutivo alla natura umana.»
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Enrico Peyretti è membro della Rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente.
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