(Italiano) L’India, tra COVID, fame, cavallette… e mercato
ORIGINAL LANGUAGES, 7 Sep 2020
Elena Camino | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service
COVID-19: oltre i numeri…
Sunita Narain, direttrice di un prestigioso centro di ricerca e divulgazione scientifica indiano, con sede a New Delhi (il Centre of Science and Environment, CSE) ha pubblicato il 10 agosto scorso alcune considerazioni sulla situazione indiana e mondiale relativa alla pandemia da COVID-19. In primo luogo fa notare – come più volte hanno sottolineato altri studiosi e giornalisti in tutto il mondo – che la situazione nei diversi Paesi viene presentata in termini che possono risultare positivi o negativi a seconda dei ‘numeri’ che vengono citati e dei confronti fatti. E fa l’esempio di Donald Trump che – proprio il giorno in cui in USA si raggiunge la cifra di 160.000 decessi – sostiene che le cose non vanno male, nel suo Paese: in effetti, se si considera la percentuale di morti rispetto al totale dei casi, la situazione in USA è migliore che in altri Paesi. Il tasso di mortalità è del 3,3%, assai minore di quello registrato nel Regno Unito e in Italia (14%). Da un altro punto di vista, però, la situazione in USA è fuori controllo: in un Paese che ha il 4% della popolazione mondiale, si registra il 22% dei morti complessivi… È chiaro quindi che la scelta dei dati da illustrare è determinante nel focalizzare l’attenzione e condizionare il giudizio dei lettori.
Passando alla situazione dell’India, è evidente – secondo l’Autrice – il motivo per cui il governo continua a dire che le cose non vanno male: il tasso di mortalità è basso (2,1%), e anche se ogni giorno si registrano 60.000 nuovi contagi, sono pochi rispetto alla popolazione totale, che è ormai circa 1 miliardo e 400 milioni: 1.400 contagi al giorno, contro i 4.500 dell’UK e i 14.500 degli USA. D’altra parte è evidente che pesa anche il numero di test eseguiti: negli ultimi giorni, in India ne sono stati eseguiti 16 per ogni mille abitanti, in USA 178.
Ma ha senso, è utile confrontare le prestazioni di Paesi diversi? Solo nella misura in cui ci possono aiutare a capire gli errori commessi e a prendere decisioni utili per il futuro. L’India ha subìto un lockdown molto duro e senza preavviso, nell’ultima settimana di marzo, che ha portato a costi economici altissimi e alla totale perdita dei mezzi di sussistenza per una grandissima parte della popolazione, soprattutto delle fasce più povere. Ma nonostante questa decisione radicale, il virus non è stato fermato, anzi, ha vinto.
Le considerazioni successive che fa Anita Narain sono molto simili a quelle che si sono sentite in Europa (salvo la differenza di scala…). Secondo questa ricercatrice occorre ripartire su due fronti: da un lato sostenere con immediati aiuti monetari diretti un grandissimo numero di persone che sono rimaste senza lavoro, che patiscono la fame, che si sono trovate prive di risorse. Dall’altro prendere atto della condizione disastrosa del sistema sanitario, con infrastrutture praticamente inesistenti a livello di stati, di distretti e di villaggi, e con gli operatori sanitari – medici e infermieri – ma anche tecnici, spazzini, impiegati pubblici, ormai allo stremo delle forze. L’India ha finora destinato alla salute pubblica l’1,28% del PIL (la Cina destina il 3% di un PIL assai più grande!): bisogna assolutamente cambiare strategia, anche perché il virus sta dilagando.
Aumentano i morti da malnutrizione… e non solo in India
Un funzionario ufficiale dell’UNICEF, Arjan De Wagt, in un’intervista rilasciata a Delhi l’8 agosto ha dichiarato che l’insicurezza alimentare conseguente alle misure anti-COVID porterà a un significativo aumento dei casi di malnutrizione in India, peggiorando una situazione che era già drammatica: secondo la rivista medica «The Lancet», infatti, nel 2017, la causa di morte di 700.000 bambini – su un milione e 40.000 morti prima del 5° anno di età – era stata la malnutrizione. Ora, nel 2020, il prolungato lockdown ha causato una crescita della povertà e della disoccupazione, che inevitabilmente porteranno a un ulteriore aumento di fame e malnutrizione. Il blocco delle attività ha inoltre reso difficile l’erogazione di servizi essenziali in campo alimentare, come la distribuzione di razioni da consegnare a domicilio: mancano adeguate e tempestive informazioni sulle famiglie più bisognose, e si sono dovuti gestire i rischi di contagio nella preparazione e consegna del cibo. Così, attualmente in media muoiono ogni giorno 1.934 bambini sotto i cinque anni in conseguenza alla mancanza o scarsità di cibo. Bisogna lavorare con i Centri di Riabilitazione Nutrizionale (Nutrition Rehabilitation Centres, NRCs) investendo risorse, sviluppando corsi di formazione, attrezzandosi professionalmente per gestire la pandemia, e convincendo le famiglie a portare i loro bambini, superando le paure di contagio. Il governo ha distribuito telefoni cellulari a questi centri, per monitorare la situazione, collegare i servizi con le comunità che sono in difficoltà, fornire risorse alimentari adeguate alle condizioni dei bambini.
La mancanza di cibo conseguenteal blocco delle attività produttive e dei trasporti, e all’isolamento di intere comunità, sta causando effetti disastrosi in tutto il mondo, non solo in India: i dati ufficiali indicano che stanno morendo 10.000 bambini in più ogni mese nel mondo, e mezzo milione di bambini in più ogni mese soffrono di gravi carenze alimentari e di malnutrizione. Una serie di interviste fatte a membri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità descrive un quadro disperato della situazione in molto paesi, dal Burkina Faso al Venezuela, dalla Colombia all’Afghanistan, dallo Yemen al Sudan.
I migranti tornano nelle grandi città…ma non c’è lavoro
Con 3 milioni di persone contagiate da COVID-19, il governo centrale e le amministrazioni dei vari stati dell’India sono riluttanti a riavviare le attività. Il giornalista Kunal Purohit, in un articolo pubblicato il 21 agosto, illustra l’angosciosa situazione dei lavoratori migranti, che devono decidere se rimanere nei loro villaggi, faticosamente raggiunti dopo l’improvviso lockdown di marzo, ma dove non si sono presentate opportunità di lavoro, oppure riprendere la strada verso le grandi città, nella speranza che lì si riaprano cantieri, lavori a giornata, piccole attività commerciali.
La storia di Khaled. Prima del lockdown Mohammed Khaled lavorava nell’ufficio amministrativo di una piccola fabbrica di abiti, in uno slum di Mumbai. Dopo le restrizioni il suo salario era stato dimezzato, ed era diventato impossibile per Khaled e per la sua famiglia pagare affitto e cibo. Così in giugno avevano fatto i bagagli ed erano tornati nella loro città di origine, Kanpur, in Uttar Pradesh: una cittadina famosa per l’industria del pellame. Khaled sperava di ricominciare lì a lavorare, ma molte fabbriche avevano chiuso, e la maggior parte degli operai licenziata. Non rimaneva che tornare a Mumbai! Ora lavora 5 giorni alla settimana presso il suo precedente datore di lavoro, ma con uno stipendio che è meno della metà di prima. Gli altri due giorni lavora per Uber, con un orario di 10 ore al giorno. Ma anche così fa fatica, e guadagna ogni mese meno di quello che prendeva prima della pandemia.
La storia di Khaled non è un’eccezione. Sono stati 400 milioni i lavoratori informali migranti che hanno dovuto lasciare le città durante il lockdown iniziale: molti hanno percorso a piedi centinaia o migliaia di kilometri per raggiungere i loro villaggi, a causa del blocco immediato e totale dei servizi di trasporto pubblici. Molti di loro vivevano grazie all’incasso della giornata, non avevano contratti ufficiali né forme assicurative. Molti non ricevono più la paga da fine marzo, e sono costretti a rivolgersi a enti assistenziali o agli aiuti statali. Secondo la Banca Mondiale il lockdown in India trascinerà 12 milioni di persone nella povertà più nera, senza prospettive di venirne fuori.
Il Centro di Monitoraggio dell’Economia Indiana (The Centre for Monitoring Indian Economy, CMIE), con sede a Mumbai, ritiene che in aprile siano andati perduti 90 milioni di posti di lavoro informale. Molti hanno cercato alternative nel settore agricolo, ma il tasso di disoccupazione, che a inizio anno era del 7,2 per cento, è cresciuto all’11% in giugno, e rimane tuttora elevato.
Nel frattempo la pandemia sta dilagando in India, e c’è il sospetto che nelle grandi città la situazione sia più grave di quanto risulta dai dati: da test eseguiti per evidenziare gli anticorpi al virus risulta che 5,8 milioni di residenti a New Delhi (su un totale di 20 milioni di residenti) potrebbero essere stati infettati senza mostrare sintomi. Indagini simili in altre città danno risultati altrettanto preoccupanti: a fine luglio, il 57% degli abitanti degli slum di Mumbai risultano positivi al COVID-19. Dato che il tasso di mortalità in molti slum è rimasto basso, c’è da pensare che – nell’impossibilità di assicurare il distanziamento sociale in luoghi così affollati – sia stata raggiunta una forma di ‘immunità di gregge’, favorita anche dalla giovane età media dei residenti.
Più del virus, il rischio è la fame
Mumbai, il principale centro finanziario dell’India, è stato duramente colpito dalla pandemia, e registra tuttora circa 1.000 nuovi contagi al giorno. Per questo motivo il governo gli uffici privati lavorano con personale ridotto al 10%, gli uffici pubblici lavorano a ritmo molto lento, moltissimi negozi sono chiusi e le attività commerciali sono ferme.
La storia di Naimuddin Shah. Per Naimuddin Shah, un carpentiere di 44 anni, le restrizioni causate dal lockdown sono state disastrose. Subito prima del blocco Shah era tornato nel suo villaggio, nel distretto settentrionale di Basti: restò lì tre mesi, poi, rendendosi conto che non c’erano prospettive di lavoro, decise di tornare a Mumbai. Ma nessuno gli diede lavoro: la gente non aveva neppure i soldi per mangiare, figurarsi se qualcuno gli ordinava dei mobili!
Shah deve mantenere sua moglie e sei figli, ma quel poco che riesce a guadagnare non basta a sfamarli. Così, quasi ogni sera Shah e i suoi figli fanno la fila davanti a una moschea alla periferia di Mumbai che è stata trasformata in una cucina comunitaria gestita da ONG. Per fortuna, subito prima di ripartire per Mumbai aveva preso con sé un po’ di riso e di legumi, senza i quali adesso soffrirebbero la fame.
L’articolo di Kunal Purohit prosegue raccontando le vicende di altre famiglie, come quella del venditore di fiori, Nandkishore Ramprasad Varun: aveva riaperto il suo botteghino, ma nessuno più compra fiori, e in più le piogge degli ultimi giorni gli hanno distrutto la bancarella. «Ci sono notti – dice – in cui penso che sarebbe meglio morire piuttosto che vivere così: nell’impossibilità di guadagnarmi da vivere, malgrado io sia in buona salute e avessi un lavoro».
Le cavallette – un dramma sul dramma
Mentre tutto il mondo combatte – ormai da molti mesi – per rallentare la diffusione del virus COVID-19, alcuni Paesi dell’Africa e dell’Asia sud-occidentale stanno lottando anche contro un’altra minaccia: le ripetute invasioni di sciami di locuste del deserto, che da più di un anno stanno devastando i raccolti, e portando alla fame milioni di persone.
Si tratta di un fenomeno che non si verificava da molti decenni, e che finora aveva colpito soprattutto zone africane. La FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) negli anni passati era riuscita a tenere sotto controllo le invasioni di cavallette, grazie a un vasto sistema di allerta e pronto intervento non appena venivano avvistati deposizioni di uova e nuclei di nuovi sciami. Ma due circostanze hanno reso sempre più difficile questo controllo: da un lato il cambiamento climatico globale, che grazie a piogge insolite in aree aride e desertiche ha offerto nuovi ambienti adatti alla deposizione delle uova da parte di questi prolifici insetti; dall’altro la situazione di devastazione e di guerra – soprattutto nello Yemen – che ha reso impossibile il monitoraggio e l’intervento tempestivo per bloccare sul nascere lo sviluppo delle locuste, prima della formazione degli sciami.
Per questo anche alcune regioni dell’India sono state colpite da questa ‘piaga’, come non avveniva da decenni.
In un reportage pubblicato il 29 giugno sul «New York Times» si legge che anche la capitale, Nuova Delhi, è stata invasa da milioni di insetti, che si sono infilati nelle stazioni del metro e nei campi da gioco e hanno invaso le piantagioni di canna da zucchero. In vaste zone di campagna, in sei stati dell’India, hanno causato gravi danni, colpendo il settore agricolo già in grave difficoltà per le conseguenze delle restrizioni imposte dal coronavirus. Un singolo sciame, anche di modeste dimensioni, può divorare in un giorno quanto basterebbe a sfamare 35mila persone, e può spostarsi di più di 150 km. I forti venti presenti nei mesi di giugno hanno favorito la diffusione degli insetti fino alle aree più settentrionali del paese.
L’uso massiccio di pesticidi, sparsi con aerei e con droni, ha permesso in India di bloccare le invasioni, e di limitare i danni alle coltivazioni. Ma nell’Africa sud orientale la situazione è tuttora drammatica, e le migrazioni di cavallette rischiano di ripresentarsi alla prossima stagione.
Verso quale trasformazione globale?
In India, come in quasi tutto il mondo, i gruppi al potere stanno esercitando una fortissima pressione perché tutto torni ‘come prima’: l’economia deve ‘ripartire’, le grandi industrie riprendere le attività; bisogna incentivare il turismo e i voli internazionali, innovare, digitalizzare… È molto forte la spinta a riattivare il sistema produttivo senza significativi cambiamenti, anzi: in questo periodo c’è chi invoca minori restrizioni al libero mercato, minori controlli di tutela sociale e ambientale. Vengono fornite nuove concessioni alle attività estrattive e minerarie, alla movimentazione di merci, all’installazione di sistemi di controllo sociale, e sono approvate leggi che favoriscono il ‘mercato’ a discapito della tutela ambientale.
In India è stata introdotta – il 30 luglio, in pieno periodo di pandemia, senza un dibattito democratico – una riforma complessiva del sistema scolastico, la ‘New Education Policy’ (NEP 2020), che estende enormemente ruolo e potere della partecipazione privata nel settore educativo, ignorando la tradizione pluralistica del paese, non tenendo conto delle reali condizioni delle fasce più povere e discriminate dell’India, e privilegiando la visione neo-liberale che mira a favorire un sistema orientato al profitto, al servizio degli interessi delle imprese multinazionali. Un accordo appena firmato con la Banca Mondiale per la messa a punto di strategie di collaborazione ‘Pubblico-Privato’ non assicura certamente che venga offerta un’educazione di qualità per tutti. C’è il forte rischio che – attraverso l’istituzione di percorsi scolastici diversificati e discriminanti – aumenti il processo di esclusione delle comunità più povere e svantaggiate, a vantaggio di quella parte della popolazione indiana: si tratta di circa 300 milioni di persone, una minoranza nel paese (meno di un quarto del totale), ma abbastanza consistente da risultare interessante per il mercato e per gli appetiti delle multinazionali.
Ma in India – e ovunque nel mondo – quella che occorre è invece una radicale trasformazione degli stili di vita dominanti, dei sistemi produttivi, delle relazioni con la natura, dell’educazione. Mentre la popolazione benestante dell’India ha abbracciato il modello occidentale, sono numerose, collegate tra loro e con una rete internazionale le realtà associative, le comunità di base, le realtà delle popolazioni indigene, le esperienze di sostenibilità che hanno elaborato, sostengono e stanno sperimentando modalità di vita di lavoro, di educazione, di socialità che si rifanno alle idee di Gandhi, Kumarappa, Vinoba.
Di fronte al fallimento di un modello di sviluppo che durante la pandemia da COVID-19 si è rivelato violento, iniquo e insostenibile, la prospettiva gandhiana viene da più parti richiamata e valorizzata, come alternativa efficace, matura, sostenibile, equa e nonviolenta. Anche per questo, e non solo perché ospita 1 miliardo e 380 milioni di persone, su un totale di 7 miliardi e 800 milioni (più di un sesto dell’umanità, con un’età media di 27 anni)… dell’India si dovrebbe parlare più spesso!
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Elena Camino è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e Gruppo ASSEFA Torino.
Tags: COVID-19, Coronavirus, India, Pandemic
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