(Italiano) Le mancate iniziative di pace in Ucraina

ORIGINAL LANGUAGES, 30 May 2022

Jake Lynch | Centro Studi Sereno Regis ­­­­­­­­­­­­­­­­­–TRANSCEND Media Service

Sentieri non imboccati: le mancate iniziative di pace per l’Ucraina che avrebbero contribuito a evitare il pasticciaccio in cui siamo adesso.

Perché si parla così poco di pace per l’Ucraina? La comunità mondiale è davvero disposta a starsene seduta sulle mani mentre il paese viene distrutto, con un regime ferito a Mosca che sgrana minacce e retorica nucleare?

Potrebbe quest’allarmante stato di cose essere in qualche modo connesso con l’esperienza dei promotori di pace nei decenni recenti? Tempi in cui hanno avuto sovente valide argomentazioni ma sono stati coerentemente messi da parte?

Calziamo le scarpe più robuste per un’ardua gitarella in una trasversale in penombra fuori dalle rotte abituali dei ricordi – congelata nel disuso, ma pur sempre potenzialmente la rotta per un mondo più sicuro per noi tutti.

Essendo la tematica imminente una perturbazione nello spazio ex-sovietico, cominciamo con la caduta del comunismo. All’alba degli anni 1990 si fecero più forti forze centrifughe che sfaldarono la federazione jugoslava. I prima spari nelle guerre di successione furono di guardie confinarie slovene, in una breve schermaglia che si dimostrò per nulla un ostacolo nella serena progressione della repubblica a uno status indipendente.

Invano l’allora segretario generale ONU Javier Pérez de Cuéllar ammonì contro il lasciar cadere come domino i componenti della Federazione Jugoslava con tanto di riconoscimento della comunità internazionale a ogni tonfo. In assenza della risposta coordinate regionale che aveva sollecitato (iniziativa di pace klaxon), si lasciò che si formassero nuovi stati, così come spesso avvenuto: alla canna di un fucile.

Il disordine che questo si lasciò dietro fu sbrogliato negli Accordi di Dayton, che portarono le ostilità a una fine non del tutto netta in Bosnia-Erzegovina. Ma un problema restò trascurato: il Kosovo, la provincia della Serbia meridionale con una popolazione in maggioranza albanese.

Le aperture diplomatiche di Ibrahim [Rugani>>] Rugova, il ‘Gandhi dei Balcani’, per un’assistenza internazionale con una soluzione politica per la sua gente, furono ignorate. Solo quando lo status rappresentativo passò a un gruppo armato – l’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK) – il mondo esterno ci badò e prese nota.

L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) inviò una missione a monitorare un accordo di tregua, ma con istruzioni sbilenche: sorvegliò il ritiro delle truppe jugoslave (=serbe) dal Kosovo, ma non fece nulla per evitare che l’UCK ne rimpiazzasse le posizioni rinforzate usandole per angariare gli ufficiali jugoslavi.

Per tutta la seconda metà del 1998, il Consiglio NordAtlantico, l’ente direttivo NATO, fu informato che gran parte delle rotture di tregua erano dovute all’UCK. Ma i leader di governo dei paesi NATO nelle loro dichiarazioni pubbliche davano l’impressione opposta. Il conflitto era strutturato lungo le linee della Guerra Fredda, ci disse Robert Entman in un articolo molto citato, collegando la “valutazione morale” a tre fattori concomitanti: “definizione del problema, spiegazione causale e raccomandazione sulla cura”. Trovare un ‘cattivo’ come fonte delle varie difficoltà, e la soluzione dev’essere fargli qualcosa.

L’Accordo di Rambouillet, bozza di accordo denominato secondo il castello dove le parti si riunirono per discuterne, fu respinto dall’UCK perché esigeva che consegnassero le proprie armi e non conteneva garanzie d’indipendenza.

Vi si fece “chiarezza”– come disse alla BBC l’allora Segretario di Stato USA, la defunta Madeleine Albright – mettendolo a punto mentre i negoziati si spostavano alla vicina Parigi, riclassificando le armi da guerra come “armi di protezione personale”. E, per di più, si era aggiunto un referendum sullo status costituzionale del Kosovo da tenersi entro tre anni. Termini, questi, che si dimostravano inaccettabili al Presidente della Federazione Jugoslava Slobodan Milosevic – già identificato come il ‘cattivo’ – sicché la marcia verso la guerra diventava inevitabile.

Eccetto… il problema più spinoso con lo status del Kosovo era nella sua regione settentrionale, al confine con la Serbia, che aveva una popolazione da molto tempo a maggioranza serba. (Milosevic era salito al potere con la promessa che i serbi non avrebbero mai dovuto vivere come minoranza sotto qualunque altro popolo). E qui entra in scena la Chiesa Ortodossa Serba, con la sua iniziativa di pace (klaxon): un piano di cantonizzazione, che avrebbe permesso a tutti i temi importanti aventi a che fare con l’identità e l’appartenenza di essere sistemati dai popoli coinvolti a livello locale, peraltro dotando il Kosovo nel suo insieme di un grado sostanziale di autonomia.  Il piano fu ignorato dai decisori d’élite e, dopo 79 giorni di bombardamenti, le ostilità cessarono grazie all’intervento diplomatico dell’UE (nella persona del Presidente finlandese Martti Ahtisaari) e della Russia (ex-Primo Ministro Viktor Chernomyrdin).

Il loro piano – adottato dapprima dal G8, poi dalla UE, poi dall’ONU come risoluzione n° 1244 del Consiglio di Sicurezza – prometteva di “tener in tutto l’Accordo di the Rambouillet”,  e stipulava che la NATO entrasse in Kosovo per sancirne l’attuazione, con la riserva che truppe russe sotto comando separato prendessero in carico la regione settentrionale maggioranza serba. In vari modi, allora, i nuovi accordi assomigliavano al piano di cantonizzazione della Chiesa Ortodossa, che si sarebbe potuto attuare senza bisogno di altro spargimento di sangue. Il che avrebbe aiutato. Mosca ricevette un massiccio pagamento dal FMI – decine di miliardi – all’approvazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU, ma era ancora a corto di contanti, perciò ritirò il suo contingente entro un paio d’anni lasciando che rilevasse il compito la NATO.

Affinché l’organizzazione intraprendesse azioni collettive sul suolo di uno stato non-membro, si doveva cambiare la sua costituzione. La NATO era passata da un’autopretesa “alleanza puramente difensiva” a una con direttive interventiste.

La Russia si preoccupava che questo nuovo centro d’attenzione – e l’evidente disponibilità a trasgredire una norma perentoria del diritto internazionale, che i confini non potessero essere cambiati a forza – potesse col tempo rivoltarsi contro sé stessa, particolarmente in Cecenia. E adattò silenziosamente la propria dottrina nucleare per permetterne il primo ricorso.

Neppure tre anni dopo, il segretario di stato USA Colin Powell mostrava al Consiglio di Sicurezza immagini satellitari di bio-laboratori mobili, presunta prova che l’Iraq stava nascondendo le sue capacità di “armi di distruzione di massa” (WMD).  Non c’era ragione per dubitare della sincerità di un ex-general il cui forte senso dell’onore personale era ammirato tanto dagli amici che dai nemici politici. Invero, egli ha sempre espresso rammarico per essere stato fuorviato da materiale di spionaggio ambiguo e manipolato.

Per quanto quelle paure fossero genuine, furono comunque attenuate dagli ispettori degli armamenti inviati dall’ONU, sotto Hans Blix; che visitarono ad una ad una le località sospette, scartandole via via dall’elenco. Un’iniziativa di pace (klaxon) in buona fede – dire la verità al potere – per la quale Blix fu successivamente onorato con il Sydney Peace Prize.

Ma le WMD non erano che il “minimo comun denominatore”, secondo il neoconservatore veterano Paul Wolfowitz, allora vice-segretario alla difesa, fra i proponenti la guerra. Si anticipò la prima notte dell’operazione ‘shock and awe’ e si ritirarono gli ispettori prima che potessero appianare il casus belli dichiarato.

Ancora dopo, nel 2011, Russia e Cina si astennero per permettere l’approvazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1973, che assegnava (nuovamente) alla NATO il ruolo di pattugliamento di una no-fly zone a scopo di “protezione umana” sulla Libia. L’alleanza contribuì in modo fraudolento a fornire armi ai gruppi ribelli, e i suoi leader dichiararono ben presto il loro vero scopo di cambiamento di regime. Frattanto, fu ignorata ancora un’altra iniziativa di pace (klaxon), stavolta da parte del International Crisis Group, organizzazione non-governativa con forti agganci a Washington e all’ONU. Qui si sarebbe trattato di peacekeeper ONU schierati come polizia per porti/ rifugi sicuri.

[L’agenzia] ONU Rifugi Sicuri pativa una brutta fama dacché uno di essi era stato violato a Srebrenica, con l’assassinio da parte delle forze serbo-bosniache di centinaia di uomini e ragazzi [bosniaci] musulmani mentre i caschi blu olandesi dell’ONU restavano inerti. Tuttavia, come fece notare al tempo Mary Kaldor, tutto ciò significava che le regole d’ingaggio ONU dovevano essere rafforzate. Lo schema proposto avrebbe creato spazio per l’attuazione di una clausola meno nota della Risoluzione – colloqui inclusivi su una soluzione politica, mediata dall’Unione Africana.

Invece la Libia ha patito un decennio perduto di violenza e illegalità, con tutti gli indicatori sociali in rapido arretramento in quello che era sotto il colonnello Gheddafi, il paese con il più alto tasso di alfabetizzazione del continente africano.  In questo deprimente processo più che decennale, i precetti del diritto internazionale sono stati bellamente calpestati; e ora sembra trattarsi, come ha sostenuto il professore di diritto internazionale Challis dell’Università di Sydney, Ben Saul, null’altro che “imperialismo ammantato di legge”.  E osserva che la serie accertata di violazioni e ipocrisia, in questi ed altri casi, “invita altri paesi a fare lo stesso gioco legale” – da cui le pretese giustificazioni del presidente [russo] Putin per l’invasione illegale dell’Ucraina, riferendosi a preoccupazioni “umanitarie” fasulle e argomentazioni escogitate di “auto-difesa”.

“Mi toccherà raccontare questo con un sospiro”, riflette Robert Frost in The Road Not Taken, “da qualche parte ere ed ere fa:/ due strade divergevano in un bosco, e io –/ io ho preso quella meno trafficata, / e questo ha fatto tutta la differenza”.

Bisogna che facciamo più che sospirare, ovviamente. Non abbiamo alternative che raddoppiare il nostro patrocinio, nonostante i contraccolpi. Per la pace ci vuole tempo, mentre invece un consulto di fretta è un consulto di guerra. Ma può darsi che non abbiamo ere ed ere, perciò dobbiamo elaborare come fare una differenza.

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Jake Lynch lavora presso il Dipartimento di studi sulla pace e sui conflitti dell’Università di Sydney, dopo aver completato una Leverhulme Visiting Professorship presso l’Università di Coventry, nel Regno Unito, nel 2020. Il suo romanzo di debutto “Blood on the Stone: An Oxford Detective Story of the 17th Century” (“Sangue sulla pietra: una storia di spionaggio a Oxford del 17° secolo” n.d.t.), pubblicato per Unbound Books. Jake ha trascorso 20 anni a sviluppare e condurre ricerche nel giornalismo di Pace, tra teoria e pratica. È autore di sette libri e oltre 50 articoli e capitoli di pubblicazione accreditati. Il suo lavoro in questo campo è stato riconosciuto con il premio del Luxembourg Peace Prize nel 2017, dalla Schengen Peace Foundation. Ha svolto servizio per due anni come Segretario generale dell’International Peace Research Association, per cui ha organizzato la sua conferenza biennale a Sydney nel 2010. Prima di cimentarsi nel mondo accademico, Jake ha intrapreso la carriera da giornalista per 17 anni, per un breve periodo come corrispondente della politica a Westminster per Sky News, sempre come corrispondente per il quotidiano Independent a Sydney, culmina nel ruolo di presentatore televisivo per la BBC World Television News. Lynch è membro di TRANSCEND Rete per uno svillupo ambientale e di Pace e consulente di TRANSCEND Media Service. È co-autore insieme a Annabel McGoldrick, di “Peace Journalism” (Hawthorn Press, 2005), e “Debates in Peace Journalism”, Sydney University Press e TRANSCEND University Press. È stato inoltre co-autore con Johan Galtung e Annabel McGoldrick di “Reporting Conflict: An Introduction to Peace Journalism”, il cui editore Antonio C.S. Rosa per TMS ha tradotto in Portoghese. Il suo libro più recente di ricerca accademica s’intitola “A Global Standard for Reporting Conflict” (Taylor & Francis, 2014).

Original in English: Paths Not Taken: Peace Initiatives That Would Have Helped Avoid the Mess We’re in Now – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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