Proprio la facoltà sviluppata e raffinata della memoria carattterizza la cultura e la storia magistrale, l’identità stessa spirituale, di questo popolo. Per i suoi contributi al pensiero, all’arte, alle scienze, alla religione, alla capacità di vivere come popolo tra i popoli senza né semplicemente assimilarsi né autoghetizzarsi, che è un modello delle convivenze ormai necessarie dappertutto, il popolo ebarico deve essere da tutti ringraziato.
Perseguitato più volte per grettezza morale altrui, anche dei cristiani, con indegni pretesti teologici, persino durante la persecuzione massima nazista ha espresso anche esempi imperdibili e fecondi di resistenza morale nonviolenta: Etty Hillesum, Edith Stein, Anna Frank (e non a caso sono nomi di donne i primi che vengono alla mente). In seguito a ciò, il popolo ebraico, nel suo movimento sionista, ha confidato di potersi difendere da nuovi simili pericoli col farsi uno stato come gli altri stati, con una decisione da rispettare, ma resa discutibile dai fatti seguitine.
Lo stato ebraico si è realizzato a spese del popolo palestinese, colpito a sua volta dalla “sciagura” (nakbah) di una politica di espulsione. Da quell’origine non saggia dello Stato di Israele, dalla difficoltà di accettarlo da parte di quella regione araba, sono discesi dolorosi tragici difficili conflitti fino a oggi. Oggi l’occupazione dei territori palestinesi, metodicamente tormentosa della popolazione nei suoi bisogni primari, come la mobilità e l’acqua, il lavoro e l’uguaglianza dei diritti, non fa onore a Israele, disobbediente più di ogni altro stato alle risoluzioni obbligatorie dell’Onu. La costruzione del muro, con sottrazione di terreno e divisioni interne inflitte alla popolazione palestinese nella vita quotidiana, configura una sciagurata politica di apartheid, che il mondo civile ha già condannato.
Questo giudizio non è affatto antiebraismo, anzi, vede con vera sofferenza che la politica di Israele fa ombra nel mondo e nella storia al prezioso spirito ebraico; non ha mai mancato di criticare le forme violente (e oltretutto anche erronee) della resistenza palestinese, che però ha pure forme ed esperienze nonviolente esemplari (da Awad a Bil’in); non ignora la critica israeliana interna, sebbene numericamente esile, alla politica governativa, e l’obiezione di coscienza di parecchi giovani israeliani all’occupazione militare.
L’occupazione israeliana, motivata persino col diritto biblico-divino su tutta quella terra (che non può valere nella convivenza pacifica tra popoli diversi), ha spinto i palestinesi nella disperazione, e, ultimamente con la guerra di Gaza, nella condanna iniqua a prigione e morte. I cattivi consigli della disperazione palestinese hanno terrorizzato Israele e lo rendono pericoloso, anche perchè è uno stato atomico che non si è dichiarato.
Proprio il giorno che ricorda l’orrenda offesa e dolore del popolo ebarico è il momento per associare a questo dolore tutto quello provocato dalla compresenza conflittuale di Isarele e Palestina. La memoria saggia e buona del proprio dolore, di un grande dolore di tutti, sia memoria di tutti i dolori ingiusti di tutti i popoli. Se ognuno resta nel proprio dolore, lascia covare odio e vendetta, e, nell’illusione stolta di liberarsi, fa sì che la storia si vendichi di tutti e faccia soffrire tutti. Riconoscere il dolore dell’altro è la via d’uscita, perché solo la com-passione, perciò l’uguglianza di diritti, permette la con-vivenza necessaria a tutti e a ciascuno.
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Enrico Peyretti è membro della Rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente.