(Italiano) Tolstoj: la Guerra e la Pace
ORIGINAL LANGUAGES, 22 May 2023
Enrico Peyretti | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service
Tolstoj (1828-1910), la guerra e la pace. Intervento tenuto il 15 maggio 2023 al Centro Studi Piero Gobetti. TESTO RIVEDUTO, 16 MAGGIO 2023
1 – La conversione 2 – Verità e menzogna 3 – La chiesa e la guerra 4 – La pace in Guerra e Pace 5 – Il racconto del forzato innocente 6 – La pace umile e la vanità della potenza 7 – Universale sapienza di vita 8 – La pace tra le culture 9 – La pace sociale e politicamente 10 – Conclusione?
Dedico questo semplice lavoro ad Alberto Bosi, morto il 4 maggio, amico e maestro, filosofo, che ha lavorato anche su Tolstoj nell’ultimo suo libro “Esperienze di verità”, ed. Gabrielli 2022.
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– Questa mia relazione consiste solo in appunti modesti su un grande ampio tema, la guerra e la pace, visto nell’opera e nella persona di Lev Tolstoj. Questa lettura, fatta alla luce degli avvenimenti in corso nel 2023, porta la coscienza a concludere: l’umanità deve mettere al bando l’omicidio statale come l’omicidio privato. L’anarchia etica di Tolstoj propone a tutte le società umane la a-violenza, la non-prepotenza degli uni sugli altri, il disarmo, la demolizione degli strumenti sia culturali, sia tecnici, della sopraffazione. La politica senza potere è l’antitesi di ogni violenza, perché è l’arte e la sapienza quotidiana di vivere insieme, molti e differenti, per promuovere ogni vita insieme ad ogni vita, ed è la saggezza pratica di risolvere i naturali e fecondi conflitti con la mediazione razionale ed equa.
Dialoghiamo su questo tema, nel Centro Studi Piero Gobetti di Torino, nella giornata internazionale della obiezione alla guerra, 15 maggio 2023.
Tolstoj (1828-1910), la guerra e la pace
Scrive Leone Ginzburg, nella Prefazione a Guerra e Pace: per Tolstoj, «guerra è il mondo storico, pace è il mondo umano» (Ed. Einaudi 1968, p. XIV). Ma, dopo i grandi romanzi, dopo il “rivolgimento religioso” degli anni Settanta, c’è un “altro Tolstoj”, che legge la Bibbia e la letteratura filosofica e religiosa di Oriente e Occidente.
Pier Cesare Bori – uno dei maggiori studiosi dell’Autore russo, di cui ha esaminato direttamente i documenti nella sua biblioteca di Jasnaja Poljana – gli ha dedicato, sul tema della presente relazione, il quaderno Guerra e pace nel pensiero di Tolstoj, 1995-1996, e specialmente i volumi Tolstoj oltre la letteratura, 1991 e L’altro Tolstoj, 1995. Ha scritto pure la Introduzione a Guerra e Pace, ediz. Enaudi 1998, pp. XI-LVIII, e almeno quindici altri scritti su Tolstoj fra libri e articoli.
Nella Premessa a L’altro Tolstoj , Bori precisa che ci sono poche ricerche su questo secondo tempo della vita di Tolstoj, ma aggiunge anche, dopo il suo precedente Tolstoj oltre la letteratura: «L’elemento letterario e quello teorico mi appaiono sempre più profondamente intrecciati, prima e dopo il 1880».
Il tema della guerra e della pace in Tolstoj, la sua ricerca della pace personale e sociale-politica, sono strettamente legati al suo travaglio religioso-esistenziale. È sul piano interiore, spirituale, che Tolstoj cerca la pace, prima che sul piano storico-politico. Cerca la pace nella religione, nella fede popolare, e poi deve superare drammaticamente quella religione, lui sempre raccoglitore di sapienza da ogni parte dell’umanità.
1 – La conversione
Il nucleo della sua “conversione” o “rivolgimento” (fine anni Settanta), dopo una crisi a rischio di suicidio, è quel versetto di Matteo 5,38 (che per lui è il nucleo di tutto il vangelo): «non resistere al male». Il brano intero 38-42 porta come parole di Gesù: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. (Esodo 21, 23-25; Levitico 24, 19ss, come limite alla vendetta privata). Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra».
Si deve intendere «Non resistere al male con il male», come precisa ripetutamente Tolstoj (v. anche il titolo del recente libro di Bruna Bianchi). Cioè, non è affatto la sottomissione rassegnata al male della violenza. Quello di Tolstoj non è un pacifismo politicamente attivo, come quello di Gandhi e altri, ma neppure è semplice passività rassegnata: sarebbe pura viltà. Quel versetto evangelico sull’offrire l’altra guancia, nella tradizione cristiana, è stato spesso inteso come rassegnazione, e addirittura come dolorismo meritorio, sacrificale.
Invece, l’esegeta americano Walter Wink, nel libro Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, dà una interpretazione interessante: in quella società, lo schiaffo sulla guancia destra, il superiore all’inferiore (il marito alla moglie, il padrone al servo, …) poteva darlo soltanto col manrovescio, per non sporcarsi di impurità il palmo della mano. Se chi è colpito lo sfida a schiaffeggiare la propria guancia sinistra, ciò è affermazione di parità, è rifiuto della superiorità. Wink vede questa sfida addirittura come una tecnica di lotta nonviolenta nella società palestinese di Gesù, insieme ad altre azioni che si leggono nello stesso contesto. Quindi è un atto di forza giusta, non di sottomissione. In questo senso, col riferimento al paradosso evangelico, Tolstoj propone una forte azione nonviolenta.
Nel 1991 il cardinale Biffi, arcivescovo di Bologna, citò il filosofo russo Solov’ev (1853-1900) per criticare Tolstoj. Accusò la nonviolenza come antievangelica e ingiusta perché rifiuta di difendere i deboli e lascia mano libera ai prepotenti, e ripropose la tesi della “guerra giusta”. L’accusa di Biffi a Tolstoj è ingiusta. Scrive Bori: «La non resistenza al male può essere tacciata di passività, di quietismo solo se non si vuole tener conto di ciò che si dovrebbe sempre aggiungere: non resistenza al male con la violenza, cioè con lo stesso male che si vorrebbe combattere» (Bori, Tolstoj oltre la letteratura, p.102). Ma è lo stesso Tolstoj che replica ai suoi «critici russi» che intendono, con «comoda obiezione», la non-resistenza come «interdizione di ogni lotta contro il male»; invece, questo principio evangelico proibisce la resistenza «con la violenza», l’unica difesa che i suoi critici sanno concepire (Tolstoj, Il Regno di Dio è in voi, p. 50).
Più profondamente, nell’escludere la risposta al male col male, Tolstoj cerca il bene, e rintraccia nel bene la pace dell’esistenza e il possibile significato della vita, che va cercando. Torna alla religione, nella quale però incontra la guerra! Questo è il dramma che egli vive.
Tolstoj abbandona tutta la teologia dotta, la lettura critica dei vangeli: egli adotta come scelta interpretativa la semplicità di un bambino, nelle parole di Gesù: «Se non cambierete e non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Bori fa notare che in questo “centro” dell’insegnamento di Gesù, Tolstoj ritrova, nel “farsi come bambino”, una competenza che non gli è nuova, che da sempre è stata in lui come nel fondo di ogni uomo. La debolezza del bambino indifeso qui è assunta non solo come contenuto ma come metodo di conoscenza. L’atteggiamento indifeso, disarmato, è così via d’accesso all’insegnamento di Gesù, ed è la forma dell’uomo autentico, come vedremo in Andrej ferito sul campo di Austerlitz a confronto con la “piccola” figura di Napoleone. (cfr Bori, L’altro Tolstoj, p. 96).
In Confessioni , scritto tra 1879 e 1882, Tolstoj dice il suo dramma religioso. La domanda è: «Chi sei tu? E perché vivi?» (p. 51 e altre). Non trova soluzione razionale negli scienziati, nei pensatori, e si rivolge alla fede (p. 72). Vede il conflitto tra fede e ragione, e non vede soluzione (p. 73). Ma dice: «Se l’uomo vive, significa che in qualcosa crede. Se non credesse che bisogna vivere per qualcosa, egli non vivrebbe» (p. 77). Scrive: «Cominciavo a capire che nelle risposte date dalla fede era custodita la saggezza più profonda dell’umanità (…) e che quelle risposte erano le uniche che davano una soluzione al problema della vita» (p. 79).
Studia le diverse religioni. Deluso dalla religione dei colti, che vede incoerenti, si rivolge alla religione del popolo: pellegrini, poveri, monaci, scismatici, mužiki. Si convince che essi possiedono la vera fede, che dà loro la possibilità di vivere, meno scontenti della vita rispetto ai ricchi. Platòn Karatàev, già in Guerra e Pace, rappresenta perfettamente questa sapienza popolare vitale. Dice Tolstoj: «Ed io fui preso da amore per quegli uomini (…). E capii che il senso che veniva dato a quella vita era la verità, e l’accettai» (pp. 80-84). «E mi salvai dal suicidio. (.…) E così la forza vitale si rinnovò in me e di nuovo cominciai a vivere» (Confessioni, pp. 92, 93).
Tolstoj rifiuta la vita della sua cerchia sociale e si immerge nelle devozioni religiose popolari, fino le più ingenue: «Desideravo di fondermi nel popolo, ma non potevo farlo». Egli studia e si persuade che il dogma fondamentale è l’infallibilità della chiesa, intesa non come autorità gerarchica, ma come comunità dei credenti: la verità divina è colta dal popolo, non può essere accessibile ad un uomo solo. Dunque la verità si rivelerà solo se ti sottometti alle cerimonie della chiesa, del popolo credente. Egli dice: osservavo i riti, le genuflessioni, le preghiere, pensavo che valessero come sacrifici e umiliazioni della mia superbia e del mio corpo, a fin di bene. Nelle funzioni religiose capivo «Amiamoci l’un l’altro», ma non capivo, e perciò tralasciavo, le parole successive: «Confessiamo la fede nel Padre, nel Figlio, nello Spirito santo» (pp. 94-98). Praticava tutti i riti, ma soffriva di non trovarvi la fede: «Ero giunto alla fede, perché, eccetto la fede, nulla, davvero nulla, avevo trovato, se non la morte. Abbandonare la fede era impossibile e io mi sottomisi» (Confessioni, p. 100-101).
2 – Verità e menzogna
Così fece per tre anni circa, ma – dice – «per me, sventurato, la verità era intessuta mediante fili sottilissimi con la menzogna, e così non potevo accettarla» (p. 103). Nel suo interesse per la fede, Tolstoj avvicinava credenti di varie confessioni (cattolici, protestanti, vecchi credenti…), e li trovava moralmente elevati e sinceri. Ma i ministri della chiesa russa li condannavano: noi soli ortodossi avevamo l’unica verità possibile! C’era guerra teologica nelle chiese. Ma – scrive – «l’affermazione che tu sei nel falso e io nel vero è quanto di più crudele un uomo possa dire ad un altro uomo». «Io la verità la ponevo nell’unione mediante l’amore, ma vedevo che era la stessa dottrina della fede che distruggeva ciò che essa avrebbe dovuto produrre» (p. 104).
Lo scandalo delle divisioni religiose è profondo: perché non si concorda sull’amore, che è l’essenziale, e nel resto si pensa e si fa come ogni chiesa vuole? Sarebbe la pace tra le religioni. «Allora capii tutto. Io cerco la fede, la forza della vita, ed essi cercano il modo per sostenere certi impegni umani. Hanno un bel dire della propria compassione per i fratelli smarriti, ma negli impegni umani per loro è necessaria la violenza, ed essa è sempre stata e sarà sempre adoperata». Che fare del seguace di una fede ritenuta falsa, se non tagliargli la testa o imprigionarlo? «Ed io rivolsi la mia attenzione a ciò che si fa in nome della professione di fede, e inorridii, e rinnegai quasi del tutto l’ortodossia» (p. 107).
3 – La chiesa e la guerra
Ma c’è altro, o di più. Scrive Tolstoj: «Una seconda questione in cui la chiesa aveva a che fare con i problemi della vita, era quella della guerra e della pena di morte». «In quel tempo, 1877, in Russia c’era la guerra russo-turca. E i russi, in nome dell’amore cristiano, cominciarono a uccidere i loro fratelli. Non pensare a questo non era possibile. Non vedere che l’omicidio era un male contrario ai primi fondamenti stessi di ogni fede, non era possibile. E intanto nelle chiese si pregava per il successo delle nostre armi, e i maestri della fede consideravano quell’omicidio come qualcosa che derivava dalla fede». (…) «E io rivolsi la mia attenzione a tutto quello che veniva fatto dagli uomini che professavano il cristianesimo, e inorridii». Ripete proprio due volte (p. 107 e 108): inorridii (pp. 103-108, sempre da Confessioni).
Fin qui, per Tolstoj, la pace profonda è l’amore per tutto il prossimo, universale, senza discriminazioni. E la guerra tra le chiese e tra gli stati, è negazione dell’amore, dell’unica verità. E’ il ripudio della guerra che porta Tolstoj a ripudiare la religione che vede compromessa con la guerra, e la politica statale violenta.
Nello stesso tempo, Dostoevskij scriveva: «Non è russo chi non riconosce la necessità di conquistare Costantinopoli» (Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860-1881). E lo stesso Dostoevskij, all’epoca della composizione de I fratelli Karamazov, si consulta ogni sabato sera col procuratore del santo sinodo (v. P. C. Bori, La tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore, p. 38-40). Tuttavia, fa notare Grossman, gli ideali di Dostoevskij sono alti e umani: tutto ricopre il suo appassionato amore per gli uomini, e malgrado ogni sforzo di farsi campione dell’oscurantismo, egli apporta la luce (cfr L. Grossman, Dostoevskij ; scritto nel 1935, pubblicato in URSS solo nel 1962).
Anche Alberto Bosi, scrivendo di questa intelligehenzia russa, parla di «impaziente estremismo che brucia le mediazioni», di «fuoco nella mente»; cita Puskin su Dostoevskij, che «per trovare pace ha bisogno della felicità universale»; parla di «intensità febbrile» con cui Dostoevskij vive la sua esperienza umana e artistica, «geniale groviglio di contraddizioni» (Fëdor Dostoevskij, pp. 21-27). Qualcosa di simile si può dire anche di Tolstoj.
E in quella guerra russo-turca, che indigna Tolstoj, e che Dostoevskij approva, accade che nel giorno del compleanno dello zar Alessandro II, per fargli “dono” della città di Plevna riconquistata, vennero inutilmente sacrificati quindicimila soldati russi (secondo Gitermann, Storia della Russia, Nuova Italia, Firenze).
4 – La pace in Guerra e Pace
Ma già nel romanzo Guerra e pace, Tomo IV, l’opposizione di Tolstoj alla guerra è profonda. Pierre Bezuchov ha assistito ad una fucilazione (anch’io, all’età di nove anni, ho assistito ad una fucilazione, nel 1945, che mi ha segnato). Pierre «vedeva che nella sua anima, d’un tratto, era distrutta la fede nel buon ordine del mondo e nell’umanità e nell’anima e in Dio. (…) Sentiva di non avere il potere di tornare alla fede nella vita».
Vedere uccidere minaccia la fede nel bene e nella vita, se non la si salva ricorrendo ad una più alta e forte risorsa di fede e coraggio, al di sopra della potenza del male.
L’angoscia cosmica di Pierre rimanda, con le stesse parole, al sentimento di Katjuša, in Resurrezione (del 1900, Parte Prima, XXXVII), quando, incinta, si sente per la seconda volta abbandonata da Nechjudov: «Fino ad allora aveva creduto nel bene. Ora aveva cessato di credere al bene. Tutti quelli che parlano di Dio e del bene, fanno così, tutti quanti, soltanto per ingannare gli altri». Una fucilazione e un cinico abbandono distruggono la fede nel bene. Questa perdita, il trionfo unico del male, distrugge la vita.
Ma Pierre (torniamo a Guerra e pace), dopo quella fucilazione, conosce Platòn Karatàev, che gli ridona fiducia: insieme al male c’è sempre un bene (col servizio militare, Platòn sostituisce un fratello che ha cinque figli). Pierre, nella notte, sente che il mondo poc’anzi distrutto, rivive, adorno di una nuova bellezza, su nuove incrollabili fondamenta, per la presenza di un uomo come Platòn.
Questo personaggio di Tolstoj (il nome Platòn non è casuale) è un saggio, forse un santo. Riassumo parole di Tolstoj su Platòn (già sintetizzate da Bori nell’opuscolo di Boves). I suoi discorsi sono pieni di proverbi, ma nel contempo il suo sapere è personale e vitale: quelle sentenze popolari che sembrano insignificanti, acquistano un significato pieno di profonda saggezza quando sono dette a proposito. Nel linguaggio di Platòn, i più semplici avvenimenti acquistavano un carattere di solenne bellezza. Viveva con amore e amava tutto ciò con cui la vita lo faceva incontrare, soprattutto le persone che aveva davanti agli occhi. Il suo modo di pensare e di parlare gli preclude di considerare gli esseri come esistenze isolate. Ogni sua parola e atto erano manifestazione di una attività a lui ignota, che era la sua vita. La sua vita non aveva senso come vita separata. La sua vita aveva senso solo come particella di un “uno”, di cui aveva continua percezione. Parole e azioni emanavano da lui con la stessa necessità e spontaneità con cui il profumo si espande da un fiore. Platòn, l’umile uomo del popolo, è un sapiente, e incarna per Tolstoj la pace vissuta. È incarnazione della pace come saggezza e bontà di vita, pur senza virtù eroiche. Per Tolstoj, Platòn rappresenta l’anima profonda del popolo russo, umile, giusto, buono.
Il tipo umano di Platòn non è conflittuale, ma “comunionale”, senza nulla perdere di identità personale: un “santo” per Tolstoj, al di sopra della logica individualista, interessata solo a sé. Guerra e Pace è un immenso affresco di umanità. A me pare che Platòn sia il più grande dei tanti personaggi di questo affresco, proprio perché è il più “piccolo”. Si può dire forse che Platòn, per Tolstoj, incarna la pace, che non è un sistema istituito, ma una realtà umana vissuta. La pace è il mondo umano, come riassume Ginzburg. Dice Bori che, per Tolstoj, «La guerra non fa parte della natura umana, espressa al suo meglio in Platòn Karatàev» (opuscolo di Boves , p. 11).
5 – Il racconto del forzato innocente
Ecco un momento della consolazione profonda che Platòn comunica a Pierre sollevandolo dalla disperazione del vedere il bene sopraffatto dal male. Nel grande romanzo c’è un piccolo racconto di Platòn, attorno al fuoco, una fredda sera, durante la ritirata dei francesi, che portano con loro i prigionieri. Molti soffrono. Platòn esce con uno dei suoi proverbi: «A chi si lamenta della malattia, Dio non dà la morte». Poi racconta la storia di un vecchio condannato ingiustamente ai lavori forzati, per un errore di persona, come colpevole di omicidio (è in Guerra e Pace, Libro 4°, Parte Terza, cap. XIII). Il vecchio soffre con pazienza, e piange per i suoi familiari. Tra i forzati c’è il vero colpevole di quell’omicidio, che si fa avanti e confessa. Parte la procedura, ci vuole del tempo, arriva fino alla firma dello zar. Quando arrivano le carte, per liberare l’innocente, non lo trovano. Conclude Platòn, con le labbra che gli tremano: «Dio gli aveva già perdonato: era morto».
Cosa vuol dire Tolstoj con questo racconto centrale? Scrive: «Il suo misterioso senso, la gioia piena di fervore che splendeva nel viso di Platòn mentre raccontava, il segreto significato di quella gioia, era questo che ora empiva confusamente e lietamente l’anima di Pierre Bezuchov», che pure ascoltava questo racconto per la sesta volta. È semplice e misterioso, uno di quei misteri che fanno luce. Non è da spiegare. Lo spiega senza spiegarlo il «sorriso silenzioso» di Platòn, alla fine del racconto. Questo piccolo-grande personaggio centrale del romanzo, in tutto il suo vivere, sembra che per Tolstoj incarni la pace, cioè la verità. Il racconto misterioso forse dice la pace dell’innocente travolto dalla falsità e dalla violenza, ma non guastato, non distrutto. Forse vuol dire: la guerra non distrugge la pace?
Nella ritirata, i francesi fucilavano i prigionieri rimasti indietro, più di cento erano già morti così. Il giorno dopo quel racconto, Pierre vede Platòn seduto stanco appoggiato a una betulla: ha la gioiosa tenerezza della sera precedente, dopo il racconto, e anche un’espressione di sommessa solennità. Platòn accenna a chiamare Pierre per dirgli qualcosa. Ma Pierre ha troppa paura per sé (anche lui è un prigioniero stanco), finge di non vedere quello sguardo e si allontana. Si incammina. Alle sue spalle, sente un colpo di fucile, e capisce. Due soldati francesi hanno fucilato Platòn Karataev. Pierre non si volta. I due soldati passano davanti a lui, che rivede in loro l’espressione del soldato autore di quella fucilazione che aveva distrutto in lui la fede nell’umanità, e nell’anima, e in Dio, la fede nella vita, prima di ritrovarla in Platòn. Ora Platòn, il buono, è stato ucciso come un inutile Cristo, e Pierre non si è voltato a porgergli uno sguardo. Ma, per combinazione, si ricorda di un suo professore di geografia, in Svizzera: «Amare la vita è amare Dio. La cosa più difficile e più benedetta è amare questa vita nelle sue sofferenze, nelle sofferenze incolpevoli» (Guerra e Pace, p. 1244-45).
6 – La pace umile e la vanità della potenza
La pace per Tolstoj è più umile e più grande della fragorosa guerra. È il mondo umano, sotto il mondo della storia (cfr Ginzburg, Prefazione citata). Egli racconta la battaglia di Austerlitz, 1805, la descrive nei particolari militari, strategici, ma poi l’obiettivo si stringe sull’uomo. Per gli storici, chi è “un grande” è al di là del bene e del male. «Per noi, con la misura del bene e del male dataci da Cristo, non c’è nulla di incommensurabile. E non c’è grandezza là dove non c’è semplicità, bontà e verità» (GP 1252).
Il principe Andrej Bolkonskij, ferito nella battaglia, giace supino, sull’altura di Putzen. «Sopra di lui non c’era più nulla, se non il cielo: un cielo alto, non sereno, ma pure infinitamente alto. “Che silenzio, che quiete, che solennità! (…) Come mai non lo vedevo prima, questo cielo così alto? … Sì. tutto è vuoto, tutto inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è niente all’infuori di esso. Ma anch’esso non esiste, non c’è nulla al di fuori del silenzio e della tranquillità. E Dio ne sia lodato!..». (GP. 325). Andrej si sveglia dallo svenimento, non sa dopo quanto tempo. La testa gli doleva: sentiva di perdere sangue e vedeva sopra di sé il cielo lontano, alto ed eterno. «Dov’è quel cielo che non conoscevo, e anche questa sofferenza non conoscevo. Sì, finora non conoscevo nulla. Ma dove sono?» (GP 336-7).
Attraverso nuvole veleggianti vedeva azzurreggiare il cielo. Si avvicinano dei cavalieri, tra i quali è Napoleone. Si avvicina ad Andrej: «Voilà une belle mort!». Andrej capisce che quelle parole si riferiscono a lui, e che le diceva Napoleone. Le aveva udite come se fossero «il ronzio di una mosca». «Egli sapeva che quell’uomo era Napoleone, il suo eroe, ma in quel momento Napoleone gli pareva un uomo così piccolo e insignificante a paragone di ciò che accadeva fra la sua anima e quell’alto cielo infinito su cui correvano le nuvole» (GP, p. 337). Poi Napoleone si accorge che Andrej è vivo, lo fa curare, ammira l’onore del suo reggimento, che è la guardia dell’imperatore Alessandro. «Andrej fissò gli occhi su Napoleone e tacque… In quel momento gli pareva così insignificante tutto ciò che interessava Napoleone, con quella meschina vanità e gloria della vittoria, a paragone di quell’alto cielo giusto e buono, che egli aveva veduto e compreso; Napoleone, il suo stesso eroe gli pareva così piccino, che non poté rispondergli nulla.
E poi tutto gli pareva così inutile e insignificante a paragone di quella severa e maestosa teoria di pensieri che avevano suscitato in lui l’indebolimento prodotto dalla perdita di sangue, le sofferenze e l’attesa di una prossima morte. Guardando Napoleone negli occhi, il principe Andrej pensava alla vanità della potenza, alla vanità della vita, di cui nessuno poteva capire il significato, e alla vanità ancor più grande della morte, di cui nessuno fra i vivi poteva capire né spiegare il senso».
Napoleone dispone che questi signori feriti siano curati dal suo medico, poi parte al galoppo: «sul suo viso brillava la soddisfazione di sé e la felicità» (GP p. 339). Andrej pensa: «Niente, niente è certo, se non la nullità di tutto ciò che io posso capire e la grandezza di qualche cosa che non si può capire, ma che è di somma importanza». «Egli pensava già alla calma felicità familiare, quando a un tratto gli era apparso il piccolo Napoleone col suo sguardo indifferente, limitato e felice dell’infelicità altrui, e cominciavano i dubbi e i tormenti, e soltanto il cielo prometteva pace». Il medico di Napoleone prevede che Andrej non si salverà. Lui e gli altri feriti sono affidati alle cure degli abitanti del paese. (GP p. 340). Andrej, poi, guarirà, tornerà a casa.
Pierre Bezuchov e Andrej Bolkonskij sono i due personaggi, sull’ampia scena umana di Tolstoj, che incarnano la visione del loro Autore: Pierre perché vede e dichiara che cosa vale la pace, che è il piccolo universale Platòn; Andrej perché vede che cosa vale la guerra, che è il grande minuscolo Napoleone.
7 – Universale sapienza di vita
Ma Tolstoj, nella seconda fase della sua vita, oltre la fede nella vita e nel bene, oltre il disprezzo della potenza militare o ecclesiastica, che cosa elabora sulla pace e la nonviolenza?
Nei due libri dedicati alla “svolta” di Tolstoj, Bori, come già accennato, indica una sostanziale continuità e non una rottura, sul tema della pace, tra il letterato e il teorico. Ma, in L’altro Tolstoj, Bori esamina soprattutto la universale sapienza di vita, mentre in Tolstoj oltre la letteratura (p. 99) spiega e documenta la nonviolenza pratica.
In L’altro Tolstoj, (tra i due libri, è secondo in ordine di pubblicazione), Bori mostra come Tolstoj vede, «in tutti coloro che professano con i fatti l’insegnamento di Cristo», un criterio ultimo di lettura e interpretazione, ed è la “ragione”, nel significato non intellettualistico ma vitale. Fede e rivelazione per Tolstoj sono connesse alla razionalità, che per lui è saggezza di vita, correlata all’istanza etica. Questa ragione, razum, ha per lui radici bibliche (p. 54), anche se non vede una continuità tra ebraismo e cristianesimo, e pone tutto il centro nei quattro Vangeli (p. 60), di cui scrive una Unificazione e traduzione.
Tolstoj chiama “rivelazione” ciò che risponde alla domanda a cui la ragione non sa rispondere: «Che senso ha la mia vita?». La fede non è quella a cui obbliga la chiesa, ma è quella conoscenza della rivelazione senza la quale è impossibile vivere e pensare: conoscenza a cui l’uomo non può arrivare con la sua ragione, ma che viene ad ogni uomo da quel principio “nascosto nell’infinito”. Dove c’è vita c’è fede, che è la possibilità di vivere: la fede è la forza della vita. Se l’uomo vive, significa che crede in qualcosa. «Io cominciavo a capire che nelle risposte date dalla fede era custodita la saggezza più profonda dell’umanità, e che non avevo diritto di negarle basandomi sulla ragione, e capivo che – ciò che più conta – quelle risposte erano le uniche che davano una soluzione al problema della vita» (Confessioni, cap. IX). Contro l’insensatezza e la violenza della vita, ritorna quel pensiero di Pierre dopo la fucilazione di Platòn: «Amare la vita è amare Dio».
La pace che Tolstoj trova per questa via è la pace interiore, la possibilità di rispondere all’inspiegabile e all’assurdo, evitando il suicidio e il nichilismo. Questa pace gli permette di sentire e dedicarsi alla sapienza vitale, quindi al problema della pace sociale e politica. Se la vita è possibile e amabile, allora la sapienza esige che la difendiamo dalla violenza.
Vediamo questi tre aspetti della pace: con la pace interiore, è possibile la pace culturale, condizione della pace politica.
8 – La pace tra le culture
La lettura, per Tolstoj, è nutrimento. Usa spesso la metafora del cibo, del latte materno e della voce materna che instilla la prima sapienza nel bambino. La scrittura-lettura prolunga il rapporto con il corpo e con l’affetto materno, ponendo sia limiti sia mete al nostro desiderio. Tolstoj ha una concezione alta della lettura, profondamente educativa. Vede le tante differenze culturali, ma proprio per questo le raccoglie, perché vede affermazioni filosofico-religiose comuni a tutti i popoli: «è impossibile non credervi, perché, oltre ad essere in tutte le religioni, sono scritte nel cuore di ognuno» (Confessioni, p. 126). Per questo Tolstoj raccoglie un ampio Ciclo di lettura (due volumi, 41 e 42, dell’Opera omnia), a cui lavora negli anni 1904-1905, poi per una revisione nel 1907-1908. È quindi come un culmine e compimento del lungo lavoro di Tolstoj.
Di questa opera di pace culturale-sapienziale, planetaria, non abbiamo una traduzione, ma l’abbiamo di opere affini. Abbiamo i Pensieri per ogni giorno, per ogni giorno dell’anno, tratti da ogni tempo e cultura, con apporti personali di Tolstoj, che vi lavora nel 1907-1910, ultimo anno di vita. Sono pensieri che testimoniano le convinzioni di Tolstoj in tanti suoi temi e interventi: la non-resistenza, il pacifismo, la difesa degli obiettori di coscienza e delle minoranze religiose, il vegetarianesimo, l’opposizione alla pena di morte. Più che la cura letterale dei testi che cita, a Tolstoj interessa il loro valore formativo, sapienziale, universale, perciò pacifico.
Abbiamo anche Il cammino della saggezza, traduzione di La via della vita, opera uscita postuma nel 1911. Tolstoj portò al tipografo le ultime pagine tre giorni prima di morire. Sono “pensieri dell’umanità”, raccolti per temi, sono voci di tutto il pensiero umano.
Sappiamo quanto la guerra, la violenza fatta istituzione, si alimenta con l’opposizione e l’odio tra le culture e le nazioni, vivisezionando l’unica umanità; sappiamo quanto la guerra ha bisogno della ideologica “costruzione del nemico” per scatenarsi con una autogiustificazione e un impeto assolutizzato contro il “male” e l’ “errore” altrui. Sappiamo, di contro, quanto l’ascolto, il dialogo, la relazione tra le culture disinnesca quel fuoco e quelle bombe, e costruisce ponti di comunicazione tra le diverse forme di vita umana. Su questa linea di Tolstoj hanno lavorato, nel nostro tempo, autori come Panikkar, Bori, Balducci, Küng…, cercatori, nel particolare, dell’universale che unisce, rispettando la pluralità. In particolare posso indicare il lavoro di ricerca, di pensiero, di spiritualità (appartenendo alla Società degli Amici, i Quaccheri), di insegnamento in Università come in carcere, che Pier Cesare Bori (1937-2012) ha compiuto su questa linea di differenza e comunicazione tra le culture umane: basti un titolo Universalismo come pluralità delle vie.
9 – La pace sociale e politica
Il principio del «non resistere al male col male» fonda il pacifismo tolstojano. L’opera che meglio lo illustra, nelle applicazioni e nelle obiezioni, è Il Regno di Dio è in voi, del 1893. Non le dottrine bizantine, ma questa non-resistenza è l’essenza del cristianesimo, per Tolstoj, sconosciuta e non insegnata dalla chiesa ai più: non replicare al male col male; mettere bene dove c’è male. Ed è anche l’anima della vita insieme, della politica di giusta convivenza.
Scrive Pier Cesare Bori nelle Lettera a Tolstoj, del 17 dicembre 2010, nel centenario della sua morte (riassumo e annoto): La nonviolenza è comunemente intesa come una tecnica per risolvere i conflitti senza armi. Ma per Tolstoj la nonviolenza era una scelta metafisica: era nientedimeno che il passaggio dalla menzogna alla verità, dalla morte alla vita, e quindi anche dalla guerra alla pace. La pace è assai più che una pratica utile e salutare. È una “vita nella verità” (come diranno Gandhi e Vaclav Havel). Per Tolstoj è possibile arrivare già ora a una esistenza vera, totale, senza fine, se si risveglia in noi la consapevolezza che «la vita si manifesta sì nel tempo e nello spazio, ma questo è soltanto il suo manifestarsi» (Della vita, 1886).
A questa consapevolezza si giunge non con le parole, ma attraverso una porta stretta: un atto di sottomissione a questo principio: “la vita si trova solo perdendola, donandola”. Il “non rispondere all’offesa” era per lui il principale di questi gesti, a cui le grandi tradizioni spirituali ci invitano, insieme con una promessa di quella vera felicità che Gesù di Nazaret chiamava “beatitudine”: «Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5,10) (il Regno che non è l’aldilà, ma la vita autentica).
Allora, Tolstoj è forse profeta evangelico, è una proposta mistica, al di là della politica praticabile nelle cose umane? In questo senso, secondo Bori, egli è stato, piuttosto che un profeta, un maestro che «tramanda, non crea» (come dice Confucio, che Tolstoj amava). Tolstoj voleva trasmettere il nucleo delle diverse esperienze spirituali dell’umanità, voleva invitare ciascuno a riconoscere questo nucleo nella propria tradizione (Gandhi lo trovò nella propria tradizione induista). In mille modi diversi questo nucleo può essere formulato. A Tolstoj piaceva quello della lettera di Giovanni, l’evangelista: «come si fa a dire di amare Dio che non si vede, se non si ama il fratello, che si vede?» (Prima lettera di Giovanni, 4,20). Ma questo nucleo è universale-poliedrico, e Tolstoj concorre a formare così la cultura universale, poliglotta, pluralistica, della pace.
Ci sono anche perplessità e critiche a questa pace politica, spiritual-anarchica, proposta da Tolstoj. Si può accusarlo di moralismo manicheo (in Sonata a Kreutzer demonizza anche la sessualità coniugale), di negare che l’esigenza morale ha bisogno della mediazione storica, di ignorare i percorsi tortuosi della storia, a cui invece è sensibile nella sua produzione letteraria. Gandhi invece, raccogliendo l’eredità di Tolstoj, aggiungerà alla fedeltà alla verità la sensibilità politica e storica, praticando intensi concreti «esperimenti con la verità». In Tolstoj la concezione dell’amore, è un’idea finale e altissima, radicale, che si afferma come forza indifesa: si può condividerla come esito di maturazione, affermativa, più che oppositiva e dualistica, più che riduzione negativa dell’amore a non-resistenza, quasi una ossessione di purezza e separazione (cfr Alberto Bosi. Esperienze di verità, p. 199, e P. C. Bori, Introduzione a Tolstoj, La mia fede).
Però, riguardo a queste possibili critiche, lo stesso Bori (su Linea d’ombra, febbraio 1989, p. 20) conclude: «Al di là di tutte le riserve intellettuali legittime e inevitabili, per i duri di cuore, come noi, l’unico atteggiamento degno è quello del rispetto e dell’attesa, nella speranza che anche noi possiamo un giorno capire meglio queste cose così difficili».
Non c’è solo la storia. C’è l’intimo di ciascuno con se stesso, e le relazioni tra noi. Possiamo chiederci: qual è il mondo più vero?
10 – Conclusione?
Forse Tolstoj, oltre il grande narratore, è leader morale-religioso, di anarchismo religioso, e anche politico, e per questo è alfiere di pace, di un pacifismo nonviolento assoluto, a differenza di Gandhi, che non è assolutista sulla violenza, in quanto afferma: meglio violento che vile, anche se poi devo scegliere la lotta nonviolenta. Così Gandhi inserisce effettivamente la nonviolenza come mezzo di lotta giusta, mentre Tolstoj resta affermatore profetico della malvagità della violenza, specialmente organizzata e istituita, come la guerra, assolutamente da non riprodurre col respingerla imitandola. Vediamo alcune differenza da Gandhi.
Tolstoj: nonviolenza mistica, eroica, anche sacrificale: «Offrire il petto, ma non sparare», in Ricredetevi, 1905.
Gandhi: lotta giusta, forza umana nonviolenta, per ottenere un effettivo risultato di giustizia. E tuttavia Tolstoj è «uno degli autori che più hanno influenzato la formazione di Gandhi» (Bori-Sofri,, Gandhi e Tolstoj, Introduzione , p. 5).
Tolstoj: profezia, sapienza; nonviolenza anche sacrificale, per la verità. L’amore contro il potere.
Gandhi: politica di verità; il principio di amore in luogo del principio di potere; nonviolenza attiva
Confronto Tolstoj-Capitini? Questi ha carattere mite, rigore comportamentale, nonviolenza religiosa-morale, ma anche organizzatore e operatore pratico. Tolstoj quasi solo lanciatore di idee e spinte morali.
Lavori consultati:
Bori-Sofri, Gandhi e Tolstoj, Il Mulino 1985
Pier Cesare Bori, Guerra e pace nel pensiero di Tolstoj , Scuola di pace di Boves, 1995-1996
Pier Cesare Bori L’altro Tolstoj, Il Mulino, 1995
Pier Cesare Bori, Tolstoj oltre la letteratura, Edizioni Cultura della pace, Fiesole 1991
Pier Cesare Bori, La tragedia del potere. Dostoevskij e il Grande Inquisitore, EDB, Bologna 2015
Pier Cesare Bori, Universalismo come pluralità delle vie, Marietti, Genova 2004
Pier Cesare Bori, Lettera a Tolstoj, 17 dicembre 2010, nel centenario della sua morte
Pier Cesare Bori, Introduzione a Tolstoj, Guerra e Pace, ediz. Einaudi 1998, pp. XI-LVIII,
Leone Ginzburg, Prefazione a Tolstoj, Guerra e Pace, Einaudi 1968
Lev Tolstoj, Confessioni, Marietti 1820 editore, 1996 (1879-1882)
Lev Tolstoj Il Regno di Dio è in voi, Ed. Bocca, Roma 1894, riedito da Publiprint e Manca, Trento e Genova 1988
Lev Tolstoj, Guerra e Pace, Einaudi 1968
Lev Tolstoj, Resurrezione, Rizzoli 2016
Lev Tolstoj, La mia fede, G. Mndadori 1988
Lev Tolstoj, Pensieri per ogni giorno, Introduzione e traduzione di Pier Cesare Bori, Ed. Cultura della Pace, Fiesole 1995. Seconda edizione riveduta, Piano B edizioni, Prato 2016
Lev Tolstoj, Il cammino della saggezza, voll. I e II, Centro Gandhi edizioni, Pisa 2010
Fëdor Dostoevskij, Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860-1881, Vallecchi, Firenze 1981
Leonid Grossman, Dostoevskij , Garzanti 1977 (1935)
Valentin Gitermann, Storia della Russia, La Nuova Italia, Firenze, 1963
Bruna Bianchi, Non resistere al male con il male. Obiezione di coscienza e pacifismo nel pensiero di Tolstoj, Biblion Edizioni, Milano 2023
Walter Wink, Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, EMI, Bologna 2003
Bosi Alberto, Esperienze di verità. L’esempio dei grandi per orientarsi nel mondo, Gabrielli 2022.
Bosi Alberto, Fëdor Dostoevskij. Il problema del male, Pazzini 2018
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Nota aggiunta
«Le parole finali sul diario di Tolstoj, scritte nella stazione di Astapovo, tre giorni prima di morire: “Fait ce que doit, advienne que pourra” (PSS 58,126), sono la migliore espressione di questo atteggiamento tutt’altro che passivo di fronte agli eventi e fondato sulla “distinzione tra il processo storico, che si sviluppa in maniera elementare e non è soggetto a volontà individuali, e i principi morali, cui l’umanità è pervenuta giù da molto tempo”». (Pier Cesare Bori)
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Enrico Peyretti è membro della Rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente.
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Tags: Cultural violence, Culture of Violence, Monopoly of violence, Nation-State, State System, State Terrorism, Structural violence
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