(Italiano) Israele a Gaza: l’incrinatura ebraica col sionismo

ORIGINAL LANGUAGES, 15 Jul 2024

Richard E. Rubenstein | Centro Studi Sereno Regis - TRANSCEND Media Service

Centro Studi Sereno Regis

Sionismo Come Sciovinismo Etnico

– È avvenuto qualcosa in connessione con la feroce guerra d’Israele a Gaza, che nessuno s’aspettava e di cui pochi anche ora vogliono parlare. Non può essere riassunta numericamente – neppure allorché il numero di palestinesi morti e disperse va ben oltre 38.000 e il totale delle vittime supera 120.000 – l’equivalente, in termini di popolazione, a 14 milioni di statunitensi. Né la si può esprimere descrivendone gli effetti di inedia letale, malattia e danno psicologico sugli oltre due milioni di gazawi sopravvissuti, 85% dei quali sfollati dalle proprie case e alla mercé di continui attacchi aerei e terrestri mirati alle forze restanti di Hamas.

Anche gli israeliani hanno molto sofferto, a cominciare con la perdita di 1200 soldati e civili nell’ attacco di Hamas il 7 ottobre 2023. Un effetto di quell’assalto brutale è stato riaprire le ferrite dell’Olocausto, traumatizzando di nuovo un popolo già conscio della propria vulnerabilità storica. Ma il risultato della reazione sanguinosa a tale violenza da parte del proprio governo, ritenuta plausibilmente genocida dalla Corte [Penale] Internazionale, insieme al suo mancato riconoscimento delle fonti sistemiche della miseria e rabbia palestinese, hanno rotto i legami con alleati comprensivi e critici amichevoli in tutto il globo.

Gli antichi cinesi avevano una dottrina che provava a dar conto di un rapporto troncato fra l’imperatore e il popolo. Asseriva che un governante che aveva perso “il mandato dal cielo” si sarebbe poi considerato per sempre illegittimo e indegno di obbedienza. Giudaismo e cristianesimo hanno le proprie versioni di tale dottrina, ritenendo entrambi che la legittimità di un regime dipenda in ultima analisi dalla sua capacità e disponibilità a trattare giustamente i propri sottoposti e vicini. Il maltrattamento sistematico dei propri (potenziali) elettori interni o d’altri stati priva un governo del diritto di esigere lealtà e rispetto.

Per quanto riguarda Israele, molti osservatori concorderebbero che il suo primo ministro abbia perso qualunque pretesa a tale specie di legittimità, intendendo che la sua cocciuta opposizione a uno stato palestinese, la sua promozione di un massiccio insediamento ebraico nei territori occupati, e il suo passato sostegno discreto ma chiaro a Hamas siano almeno in parte responsabili dell’attuale carneficina a Gaza. Ma il problema non si può definire puntando indici accusatori su Bibi o i suoi ministri ancor più ultranazionalisti. Il legame incrinato non è solo con l’attuale governo d’Israele ma anche con il sistema che ha prodotto tale regime.

Il sistema abitato dal partito Likud di Netanyahu, come da altri partiti israeliani dalla sinistra piuttosto marcata alla estrema destra, è sionista. Riflette cioè un consenso generalizzato sulla missione primaria dello stato d’Israele come luogo di rifugio e patria per gli ebrei di tutto il mondo e un mezzo per esprimere gli interessi e i valori degli ebrei israeliani in forma nazionale. Un corollario è che se eseguire tale missione pare minacciato dalle azioni di altri gruppi – comunità non-ebraiche entro lo stato o altri regimi nazionali gli interessi israeliani ebraici debbano essere preferiti a ogni altro.

Secondo la Legge Fondamentale d’Israele del 2018, “il diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato d’Israele è unico per il Popolo Ebraico”. Essendo uno stato una comunità possibilitata a far valere violentemente le proprie norme, tale preferenza sistemica per l’identità e gli interessi ebraici crea un’autorizzazione alla “violenza strutturale” (per esempio, le normative discriminatorie che i palestinesi chiamano “apartheid”) contro i non-ebrei.

Gran parte degli ebrei statunitensi hanno ritenuto a lungo che ci sia tensione fra sionismo e i valori morali che l’ebraismo ha contribuito a scoprire per il mondo. Tale tensione non è peculiare per il sionismo; esiste ovunque credenze e pratiche nazionaliste appaiano in conflitto con interessi e bisogni umani più generali. La tensione sembra particolarmente acuta dove il nazionalismo si mischi all’identità etnica o religiosa, giacché l’ebraismo e altre religioni mondiali pretendono di incarnare e promuovere valori universalmente applicabili, non solo le consuetudini di una specifica tribù. Uno di tali valori è la sacralità della vita umana: sacra e inviolabile, dicono i sacri interpreti – salvo quando nazionalisti ebrei, cristiani, musulmani, hindu, o buddhisti decidano che per proteggere il proprio gruppo sia invece sacrificabile.

Ne risulta che, quando la rappresaglia israeliana contro Hamas assunse la forma di un continuo assalto massiccio all’intera popolazione di Gaza, la mia reazione, come quella di molti altri ebrei, è stata che, indipendentemente dall’essere tale violenza un genocidio legale, violava principi fondamentali ebraici, cominciando dall’essere nessuna vita, ebraica o non, più meritevole di morte o di essere salvata rispetto a qualunque altra vita. Il senso che fosse in atto una enorme violazione di norme ebraiche si è rinforzato, non indebolito, quando chi cercava di giustificare i massacri accusava i combattenti di Hamas di trovar riparo fra i civili usandoli come “scudi umani”. Forse che i soldati in un paese senza protezione naturale o copertura aerea sono tenuti a combattere all’aperto? Comunque, dove sta scritto che uccisioni in massa di civili innocenti siano giustificate per punire malfattori che ci si nascondano in mezzo?

Risposta: da nessuna parte. Si ha un bel cercare nella Torah paralleli storici o nel Talmud ipotesi rabbiniche; il principio che equipara una delle “nostre” vite a 10 o 100 o 1000 delle “loro” non è un principio della religione tradizionale: è un tipico dogma della religione laica nota come nazionalismo. Il che diventa chiaro quando i portavoce pro-Israele usano la violenza di massa della Seconda Guerra Mondiale per giustificare i propri eccessi violenti: “Avete badato a quanti civili avete ucciso bombardando Dresda o Hiroshima?” Domanda rivelatrice: non siamo tenuti a badare a quei massacri (benché molti di noi lo facciano), perché il catechismo nazionalista insegna che “quando la nazione è in pericolo o disfatta, è giustificata ogni violenza necessaria a preservarla”.

L’equivalente sionista è: “Quando la sicurezza d’Israele è minacciata, è giustificata ogni violenza necessaria ad eliminare tale minaccia”. Ovviamente, di solito le cose non sono espresse in termini così osé. Quando gli stati giustificano una violenza estrema a difesa dei propri (presunti) interessi nazionali, lo fanno di solito non in proprio nome bensì in nome del popolo americano (o francese, o russo), o, in modo perfin più glorioso, in nome dei principii astratti pronunciati per legittimare la propria cultura politica, come libertà, uguaglianza, e democrazia. Analogamente, il governo israeliano parla come voce non solo dei propri cittadini ma del “popolo ebraico, che si dice minacciato a livello mondiale da una risorgenza dell’antisemitismo, e in quanto esponente autorizzato dei “valori ebraici”.

Quali valori, specificamente? La risposta può arrivare in abbigliamento ebraico, ma è la stessa di tutti i nazionalisti etnici: il valore supremo della sopravvivenza del gruppo. Bisogna fare precisa attenzione a come si sviluppa questa argomentazione; è come guardare un bravo imbonitore di strada nel gioco delle tre carte. Primo, centra tutta la tua attenzione su Hamas: non solo ha fatto quell’attentato disumano il 7 ottobre – dice – ma sempre loro e sostenitori vogliono distruggere Israele e uccidere gli ebrei; tutti gli ebrei, ovunque. Lo stesso vale per Hezbollah e l’Iran e complici. Perciò, non importa che violenza ci voglia per annientare Hamas e convincere Hezbollah e Iran a non attaccare Israele, è giustificata per garantire la sopravvivenza dello stato ebraico e del popolo ebraico. E chiunque metta in discussione questa conclusione è scientemente o meno nemico di quello stato e di quel popolo, cioè un antisemita.

Dov’è nascosta la carta? Non è quel che Hamas (o Hezbollah, o l’Iran) dice di voler fare. Non è l’attacco del 7 ottobre, per orrendo che sia stato, ad aver minimamente rappresentato una minaccia esistenziale per Israele o gli ebrei del resto del mondo. Lasciamo perdere che la violenza genocida contro i gazawi faccia più danno al sostegno internazionale e alla sicurezza a lungo termine d’Israele di quanto qualunque antisemita potesse sperare di fare. Concentrandosi sugli orrori che fan rivivere vividi ricordi e timori dell’Olocausto e d’altri traumi, di perde di vista un principio impartitomi anni fa dallo scienziato e pacifista israeliano Israel Shahak: “Non c’è diritto a una sopravvivenza ebraica che possa giustificare l’oppressione di altri popoli”. La sopravvivenza di un gruppo a tutti i costi è una dottrina nazionalista, non ebraica.

Sopravvissuto all’Olocausto lui stesso e soldato dell’IDF in tempi andati, il prof. Shahak descriveva il sionismo moderno come forma virulenta di narcisismo etnico. L’ipotesi soggiacente di questo modo di pensare, insisteva, è sempre “le nostre vite valgono di più delle loro”. Nozione che, non sorprende, ispirò la Lega Anti-Diffamazione a bollarlo come antisemita, ma non desistette mai dallo spiegare che il tentativo di fondere il nazionalismo col giudaismo aveva corrotto l’etica ebraica ed era divenuto esso stesso generatore di antisemitismo. Secondo lui, gli ebrei in Israele e per il mondo potevano essere davvero sicuri solo come parte di un movimento globale che agisse per stabilire una sicurezza umana basata sull’uguaglianza di tutti i popoli.

Promuovendo questo riconoscimento di una comune umanità che valesse più che il nazionalismo, il dissenziente israeliano si univa a una schiera di insigni cosmopoliti che spaziano da figure contemporanee come Noam Chomsky a saggi del diciannovesimo secolo come Samuel Clemens (Mark Twain). L’autore di Huckleberry Finn e The War Prayer comprendeva bene le implicazioni genocide della passione nazionalista.

Poiché ogni atto di violenta “autodifesa” di una nazione viene interpretato dalla nazione bersaglio come atto aggressivo che richiede rappresaglia o vendetta, la logica del conflitto nazionalista è essenzialmente quella di una contesa famigliare cronica. In Huckleberry Finn, l’amico di Huck, Buck Grangerford, spiega che cosa vuol dire: Beh, dice Buck, “una lite [protratta] è in questo modo: un uomo ha una bega con un altro e lo uccide; poi il fratello dell’ucciso uccide lui; poi gli altri fratelli, su ambo i versanti, mirano a l’un l’altro; poi entrano in gioco i cugini; poi via via tutti vengono eliminati, e non c’è più contesa.

Twain spiega la sua opinione, come spesso, con l’umorismo più cupo. Ma noi come evitiamo le conseguenze genocide della lealtà etnonazionale? Israel Shahak insisteva che l’antidoto al nazionalismo sionista non era un nazionalismo palestinese o qualunque altra forma di supremazia etnica ribattezzata come liberazione anticoloniale. Non si faceva alcuna illusione sulla provenienza del sionismo, cha almeno dalla Dichiarazione Balfour della Gran Bretagna (1917) faceva parte di un progetto coloniale d’istituire una patria ebraica come agenzia dell’influenza occidentale in Medio Oriente.

Quando gli USA sostituirono Gran Bretagna e Francia come signori imperiali dopo la Seconda guerra mondiale della regione, gli statunitensi succedettero all’egemonia britannica sulla Palestina. Ma Shahak capiva – esattamente come Franz Fanon – che senza cambiamento sociale e politico radicale, le élite nazionaliste sarebbero state incorporate in un’élite globale, e le nazioni oppresse in un’alleanza di oppressori.

Così, quando i sionisti lamentano che sia antisemita negare agli ebrei il “diritto all’auto-determinazione”, hanno ragione in un senso e orribilmente confusi in un altro. In un mondo di stati-nazione violenti e drogati dal potere, perché agli ebrei dovrebbe esser negato il diritto di essere altrettanto violenti e drogati dal potere che i nazionalisti cristiani, musulmani, o hindu? La confusione sta nel supporre che costruire e armare una nazione liberi un gruppo etnico o religioso, ne assicuri l’esistenza, e gli permetta di prosperare. Secoli fa, il nazionalismo contribuì a liberare la gente dalla dominazione dei signori feudali e delle autorità religiose tradizionali. Oggi funziona prevalentemente nell’impedire alla gente di pensare ed agire come membri della famiglia umana e della lavoratrice globale.

Per prevenire il ripetersi di guerre genocide come quella di Gaza, bisogna che facciamo di più che intrattenere rapporti “volanti” fra gli oppressori e gli oppressi. Dobbiamo procedere dalla forma infantile d’identità politica detta nazionalismo verso una cittadinanza globale e uno stato adulto morale. E ciò non avverrà finché non sostituiamo un sistema in cui oligarchi capitalisti manipolano gli stati-nazione per massimizzare i propri profitti e poteri con un sistema controllato dai lavoratori di tutte le nazioni. Riferendosi agli oligarchi delle ferrovie dei suoi tempi, Henry David Thoreau scriveva:

“Benché una folla si affretti alla stazione e il capotreno gridi ‘Tutti a bordo!’, quando si sia diradato il fumo e condensato il vapore, ci si accorgerà che qualcuno sta viaggiando, ma gli altri sono stati investiti — e lo si chiamerà un ‘deplorevole incidente’”.

Quando si diradi il fumo a Gaza, ci si accorgerà che i soli non “investiti” sono i proprietari e gestori del complesso militar-industriale USA e i politici che li hanno messi in condizione di fare il proprio gioco. Che conteranno i propri soldi, si presenteranno alla rielezione, e programmeranno la prossima guerra. Che non sarà no un incidente.

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Richard E. Rubenstein è membro della Rete TRANSCEND per Pace Sviluppo Ambiente e professore di risoluzione dei conflitti e di affari pubblici al Centro per Pace e Risoluzione dei conflitti Jimmy & Rosalyn Carter della George Mason University. Laureato al Harvard College, alla Oxford University (Studioso di Rhodes), e alla Scuola di Diritto di Harvard, Rubenstein è autore di nove libri sull’analisi e risoluzione di conflitti sociali violenti. Il suo libro più recente è Resolving Structural Conflicts: How Violent Systems Can Be Transformed (Routledge, 2017). Il suo libro in fieri la cui edizione è attesa nell’autunno 2021, è Post-Corona Conflicts: New Sources of Struggle and Opportunities for Peace.

Original in English: Israel in Gaza: The Jewish Break with Zionism – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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