(Italiano) Lavorare per la guerra?
ORIGINAL LANGUAGES, 2 Dec 2024
Elena Camino | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service
Lavorare per la guerra?, primo articolo della serie “Contrastare le politiche di guerra”, a cura di Elena Camino
Sempre più soldi per l’economia di guerra
– Negli ultimi 20 anni – grazie al lavoro appassionato e scrupoloso di studiosi, attivisti e giornalisti – è stato possibile fornire al pubblico notizie sempre più accurate e puntuali sui flussi di denaro che in Italia e nel mondo accompagnano la costruzione e la realizzazione di politiche aggressive e violente, basate sugli scontri armati a scapito del dialogo e della mediazione. Istituti di ricerca internazionali, come il SIPRI, documentano i crescenti finanziamenti indirizzati alla produzione di armamenti e alla militarizzazione dei territori e degli spazi sociali. La realtà concreta delle guerre in corso – dopo un iniziale periodo di sdegno e proteste – gradualmente sta scomparendo dalle prime pagine dei giornali e dalla consapevolezza della gente, creando un senso di impotenza e una accettazione passiva della situazione da parte di molti.
È di pochi giorni fa l’approvazione, da parte della Commissione UE, di un finanziamento europeo di 300 milioni di € (il primo di questo genere) per un programma a sostegno di appalti comuni tra diversi paesi che assegna 60 milioni a 5 progetti per acquistare sistemi di difesa missilistica aerea, munizioni, carri armati. È coinvolta anche l’Italia, che produrrà proiettili da 155mm insieme a Paesi Bassi, Polonia, Lettonia, Danimarca e Ungheria. Questa è la prima volta che il bilancio dell’Ue viene utilizzato per supportare gli stati membri nell’acquisto comune di prodotti per la difesa armata. Scegliendo di utilizzare fondi pubblici per le armi e non per progetti sociali, l’Ue contraddice i suoi stessi fondamenti istitutivi, che vietano di utilizzare risorse per mettere in atto politiche di guerra. E sempre più numerose sono le persone che nel loro ambito lavorativo sono implicate – anche senza volerlo – nella produzione bellica.
Un testo pubblicato pochi mesi fa a cura dall’associazione Sbilanciamoci e da Greenpeace, dal titolo ‘Economia a mano armata 2024’ offre la possibilità di aggiornarsi sul moltiplicarsi delle spese militari, sulla deriva politica dell’Unione Europea dagli ideali di pace verso obiettivi di guerra, sul ruolo crescente delle multinazionali nell’indirizzare le scelte industriali nazionali e i commerci internazionali. In questo libro si fa anche qualche cenno a possibili azioni di contrasto nei confronti dell’attuale politica di riarmo, nella prospettiva cioè della riconversione industriale, da militare a civile, sulla quale mi soffermerò in un articolo successivo (Le sfide della riconversione).
La militarizzazione culturale e imprenditoriale
Il contributo dell’Italia (e dell’Europa in generale) per sostenere la difesa armata come politica prevalente nelle relazioni internazionali è stato accompagnato da un significativo cambiamento strutturale e culturale: sempre più spazio e sostegno sono stati dati alle attività del settore militare del nostro paese, con crescenti ricadute nell’ambito lavorativo ed educativo. Fondi europei che erano stati pensati per soddisfare le esigenze della società civile (scuola, sanità, comunicazione, ricerca, produzione di beni per la collettività) vengono sempre più indirizzati e spesi per finanziare la produzione di armamenti e i costi delle guerre.
Se da un lato è adesso possibile avere informazioni più accurate e complete sugli impegni di spesa del settore militare (rispetto alla segretezza di un tempo), d’altro lato si è ridotta l’intensità della protesta sociale di chi contesta l’uso della violenza come mezzo idoneo ad affrontare i conflitti sociali e internazionali: in parte per l’aumentata repressione politica sulle forme di dissenso, ma in parte anche per una lenta e passiva accettazione del processo di militarizzazione dell’intera società.
Un aspetto particolarmente vistoso della deriva etica associata alla militarizzazione si riscontra nel mondo del lavoro. In questa fase storica, in cui l’Italia (ancora più che altri Paesi) risente di un drammatico processo di de-industrializzazione, si stanno moltiplicando le opportunità di impiego nel settore bellico. Un esempio di questa trasformazione è rappresentato dalla Leonardo S.p.A. , una società italiana a controllo pubblico, il cui maggiore azionista è il Ministero dell’economia e delle finanze italiano, che possiede circa il 30% delle azioni.
La Leonardo è nata come Finmeccanica, e dagli anni ’50 del 900 è stata attiva prevalentemente (al 70%) nell’elettromeccanica, nel settore ferroviario e automobilistico. Solo in questi ultimi anni la Leonardo ha spostato il suo campo di attività dai settori civili ai settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza, che sono diventati prevalenti. Questo nuovo orientamento ha comportato delle profonde modifiche anche nell’ambito della formazione, sempre più indirizzata a specializzare dei giovani in grado di acquisire competenze nel settore dell’informatica, in particolare della produzione bellica e nel controllo digitale degli armamenti.
Un circolo vizioso
Un importante centro di ricerca attivo negli USA, il Watson Institute of International and Public Affairs ospita al suo interno il Progetto ‘Costs of War’, in cui un gruppo di più di 50 studiosi, tra esperti di vari campi, giuristi, difensori dei diritti umani, medici, svolge ricerche e cura un sito web per favorire il dibattito pubblico sui costi delle guerre intraprese dagli USA dopo l’11 settembre 2001.
La comparazione tra i finanziamenti assegnati in USA al settore militare (solo nell’ambito della componente ‘discrezionale’ erogata ogni anno a livello federale) rispetto ai finanziamenti stanziati per tutte le attività civili (scuola, salute, trasporti ecc.) rende evidente l’enorme squilibrio, e la mancanza di equità di questa scelta politica, come illustra questo grafico che riporta l’andamento degli ultimi decenni. In rosso sono indicate le spese per la Difesa: tutte le altre voci di spesa (scienze, agricoltura, ambiente, commercio, sanità, traporti, giustizia, sviluppo locale ecc.) ricevono esigue percentuali.
Ma la disuguaglianza non si limita alla disparità di finanziamenti. Si tratta di un processo che si ‘autoalimenta’, imponendosi progressivamente a scapito dei processi democratici, come accennato in un recente articolo (Lavorare per chi?)
aumento della spesa militare -> i contractors militari ne traggono profitto ->L’industria militare acquisisce potere e moltiplica le lobbies per ottenere più fondi ->l’economia militare si rafforza ->la spesa militare è ormai considerata troppo importante per essere tagliata -> aumento della spesa militare.
Questo circolo vizioso viene abilmente occultato dai poteri dominanti, che sostengono che l’industria militare è indispensabile come sbocco occupazionale, e che una riduzione delle spese militari creerebbe una crisi nel mondo del lavoro e squilibri sociali difficili da gestire. In realtà le cose stanno diversamente, come documentato da rigorose indagini.
La guerra offre posti di lavoro?
All’interno del Progetto ‘Costs of war’ si pubblicarono, nel 2023, alcuni articoli che analizzano il tema dell’’economia di guerra’ da punti di vista finora poco esplorati. Sono proposti da tre ricercatrici i cui sguardi contribuiscono a mettere in discussione il paradigma dominante, che associa le opportunità di lavoro alle scelte belliche. Nel rimandare ai testi originali, ne propongo qui di seguito una breve sintesi.
Sfatare un mito
Heidi Peltier June 8, 2023 We Get What We Pay For: The Cycle of Military Spending, Industry Power, and Economic Dependence
Nel presentare la sua ricerca l’Autrice inizia con alcune domande. Quando valutiamo i bilanci pubblici degli Stati Uniti e quanto spendiamo per l’esercito, dobbiamo chiederci (a) se stiamo alimentando e finanziando le industrie e le istituzioni che vogliamo far crescere, e (b) quali altre industrie o istituzioni vengono indebolite dalle nostre scelte di allocazione. L’Autrice mette in discussione l’affermazione che privilegiare le spese militari sia la migliore strategia per creare posti di lavoro, e dimostra come il governo degli Stati Uniti stia alimentando l’economia militarizzata a scapito di altre, tra cui investimenti pubblici come sanità, istruzione, infrastrutture ed energia pulita.
Per ogni milione di $ di spesa il settore militare sostiene 6,1 posti di lavoro, mentre l’assistenza sanitaria crea quasi il doppio dei posti di lavoro, e la maggiore creazione di posti di lavoro è nell’istruzione primaria e secondaria, con 21 posti di lavoro per 1 milione di $. L’istruzione a tutti i livelli crea una media di 17,1 posti di lavoro per 1 milione di $, quasi tre volte di più rispetto all’esercito. L’energia eolica e solare creano dal 9 al 14 percento di posti di lavoro in più.
In conclusione, sottrarre fondi al settore militare a vantaggio del settore civile produrrebbe molte più opportunità di lavoro a parità di investimenti. In Italia da anni la persistente ‘fake new’ della correlazione riarmo e posti di lavoro è denunciata da Gianni Alioti, Sindacalista, membro dell’ Osservatorio “The Weapon Watch”.
Imparare dall’ esperienza
Miriam Pemberton January 26, 2023 From a Militarized to a Decarbonized Economy: A Case for Conversion .
L’Autrice prende in esame un tentativo di conversione da industria militare a industria civile che si è verificato in California dagli anni ’70 del 900 – il caso dei bus ibridi – e mette in luce alcuni elementi che hanno giocato in modo positivo: la presenza di smog rendeva importante migliorare la qualità dell’aria; inoltre i tagli effettuati dal Pentagono alla filiera dell’aerospazio avevano reato problemi di disoccupazione in quel settore. Si evidenziò una strategia integrata a favore della riconversione: trasporto pubblico, qualità ambientale, energie alternative, posti di lavoro, accompagnati da ricerche universitarie e riqualificazione dei lavoratori. Si sottolinearono anche benefici pubblici dei progetti orientati a sviluppare nuove filiere nei settori civili.
La progettazione di auto elettriche stimolava delle innovazioni sia nell’indotto che nelle infrastrutture (es le stazioni di ricarica), che nelle regolamentazioni (Public Procurement). Le potenzialità di nuovi posti di lavoro e di miglioramento della qualità dell’aria erano elevate. D’altra parte, però, mancava completamente il finanziamento che invece nel caso del settore militare era assicurato. E mancava anche la sicurezza di un mercato disposto ad acquistare. Da questa analisi, e da altre analoghe, l’Autrice trae alcune considerazioni generali per rendere possibile la riconversione: l’urgenza del contesto socio-ambientale, l’entità del sostegno finanziario, l’adeguatezza del tessuto industriale ad accogliere l’innovazione. A ostacolare la riconversione pesò la carenza di fondi pubblici, la mancanza di coordinamento con la filiera dell’indotto, la debolezza della domanda da parte del mercato.
Ascoltare e coinvolgere i lavoratori
Karen Bell, January 26, 2023 U.K. and U.S. Defense Worker Views on the Environmental Costs of War and Military Conversion
All’interno del dibattito che vede confrontarsi due idee opposte sulle scelte da privilegiare per assicurare la difesa e la sicurezza dei cittadini – se la difesa armata, fino alla guerra, oppure lo sviluppo di adeguate protezioni sociali sul piano della salute, del lavoro, dell’ambiente – non sono molte le ricerche volte a indagare le opinioni dei lavoratori stessi che sono impegnati nell’industria bellica. Eppure il loro coinvolgimento è cruciale nella prospettiva di favorire una conversione dalla produzione militare a quella civile (oltre – naturalmente – a poter esprimere una scelta etica).
Nell’articolo qui citato l’Autrice, Karen Bell, ha raccolto opinioni e riflessioni di alcuni lavoratori impiegati in industrie militari, sia in USA che in UK. La difesa è responsabile del 50% delle emissioni di gas serra del governo del Regno Unito e dell’80% di quelle degli Stati Uniti, ma c’è ancora una scarsa consapevolezza che la decarbonizzazione del settore della difesa è fondamentale per raggiungere gli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico. Il personale impiegato nell’ambito militare si trova quindi coinvolto in un doppio problema etico: quello di produrre degli strumenti di morte, e quello di contribuire ad accrescere i fenomeni estremi che colpiscono sempre più popolazioni civili e ambienti naturali.
Dalle interviste fatte risulta che in generale, finché i loro immediati interessi economici e sociali non sono minacciati, i lavoratori sembrano abbracciare con entusiasmo la transizione verso la sostenibilità. Un messaggio chiaro è che vogliono poter scegliere lavori “verdi” di qualità. Inoltre, alcuni hanno ritenuto che sia necessaria un’attenzione molto più forte alla sicurezza umana e alla diplomazia come mezzi alternativi per risolvere i conflitti.
I lavoratori del settore della difesa dovrebbero essere inclusi nei dibattiti su come effettuare la transizione alla sostenibilità, poiché hanno preziose esperienze da offrire e, quando organizzati all’interno del posto di lavoro, hanno il potere di premere per il cambiamento. La discussione non dovrebbe essere limitata solo a soluzioni tecniche e gestionali, ma a una valutazione complessiva di ciò che è davvero prezioso per la società. Secondo Karen Bell i lavoratori del settore della difesa, i loro sindacati e le loro comunità sono un’importante fonte di competenza e possono essere una bussola morale nella transizione del settore della difesa.
(1 – continua)
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Elena Camino è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e Gruppo ASSEFA Torino.
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Tags: Anti-war, Capitalism, Direct violence, Military, Predatory Capitalism, Warfare
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