(Italiano) Le sfide della riconversione

ORIGINAL LANGUAGES, 9 Dec 2024

Elena Camino | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service

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Le sfide della riconversione – secondo articolo della serie
“Contrastare le politiche di guerra”, a cura di Elena Camino

La trasformazione del contesto globale

Nell’articolo precedente si è rivolta l’attenzione soprattutto a sottolineare la crescente militarizzazione nel mondo e nel nostro Paese, e ad alcune conseguenze che ciò porta al mondo del lavoro: dal coinvolgimento dei lavoratori nelle produzioni a scopo bellico  fino alla perdita del senso etico della società, che in passato forniva ispirazioni per azioni di contrasto alla guerra nelle sue manifestazioni dirette e indirette.

Oggigiorno, anche se si sono ridotti i tentativi di opporsi alla prospettiva belligerante e re-indirizzare gli investimenti finanziari verso progetti volti al benessere collettivo e alla giustizia sociale, è tuttavia possibile trarre ispirazione da sperimentazioni passate di riconversione dalla produzione bellica a quella civile: pur se interrotte o incomplete, aiutano a mettere in luce i cambiamenti che le varie proposte hanno dovuto affrontare negli anni, e a imparare da essi. Le iniziative di riconversione un tempo riguardavano una specifica attività industriale, e la soluzione implicava delle modifiche da apportare alla catena produttiva e all’indotto circostante. L’interlocutore era per lo più una azienza locale e/o lo stato. In generale erano praticate due strategie: conservare le tecnologie ed esplorare nuovi mercati, oppure conservare i mercati e inventare nuove tecnologie. In entrambi i casi occorreva provvedere alla riqualificazione dei lavoratori.

Con il passare del tempo, e con la globalizzazione dei mercati, i ‘datori di lavoro’ sono diventati più difficili da identificare. Inoltre, con il manifestarsi dei cambiamenti climatici la conversione industriale deve tener conto anche dei vincoli imposti dai trattati internazionali: per mitigare gli effetti del cambiamento climatico si dovrebbe riorientare la maggior parte della capacità manifatturiera verso la neutralità del carbonio.

E’ chiaro che per affrontare la situazione occorre essere consapevoli della gravità della situazione: Miriam Pemberton (già citata nell’articolo precedente), contestualizzando il problema della riconversione alla situazione attuale che impone un’economia decarbonizzata,  sottolinea che il finanziamento  nell’ambito civile non può più essere circoscritto a una piccola percentuale del budget disponibile (come si è verificato finora) ma deve diventare prevalente: in via diretta, come contrasto agli armamenti (produttori di ingenti quantità di gas-serra), e in via indiretta, come contrasto al cambiamento climatico.

L’Autrice sottolinea inoltre che è necessario delineare una politica industriale globale verde, combinando gli strumenti di regolamentazione e investimento per promuovere la transizione verso un’economia decarbonizzata. Occorre in parallelo agire per eliminare regole obsolete e burocrazie inadeguate, che sono un enorme ostacolo a una trasformazione del lavoro rapida e legale.

Dalla ri-conversione della fabbrica alla conversione territoriale

Al là di una generica contrarietà alla guerra, espressa con dichiarazioni e manifestazioni – anche molto partecipate –  ma poco efficaci sul piano pratico, manca ancor oggi un ambito specifico di ricerca che promuova, illustri e  verifichi progetti di conversione dall’industria di guerra all’industria di pace.

Marinella Correggia, in un articolo dal titolo Dalle mine Valsella alle bombe Rwm. Passato e futuro della riconversione dal militare al civile, pubblicato nel libro Economia a mano armata 2024, offre una interessante rassegna di alcune esperienze di lotta per la conversione industriale dal militare al civile. In Europa tra le prime e più rilevanti fu quella della Lucas Aerospace inglese, dove nella prima metà degli anni 1970, di fronte ai rischi di licenziamento, tecnici, impiegati e operai, sotto la guida di Mike Cooley, svilupparono prototipi di prodotti alternativi socialmente utili presentati poi all’azienda. Il piano richiese un anno per essere elaborato e includeva progetti per 150 articoli proposti per la produzione – dalle pompe di calore alle attrezzature sanitarie – oltre ad analisi di mercato e proposte per la formazione dei dipendenti e la ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro dell’azienda.

Ci sembrava assurdo che avessimo tutte queste competenze, conoscenze e strutture mentre la società aveva urgente bisogno di attrezzature e servizi che potevamo fornire, e tuttavia l’economia di mercato sembrava incapace di collegare le due cose (Mike Cooley[1]).

Grazie all’affermarsi di aggressive politiche neoliberiste il Piano non venne approvato, ma ebbe grande risonanza, e fu riconosciuto come una delle proposte alternative più radicali mai elaborate dai lavoratori per la loro azienda (come scrisse Jamie Medwell su Tribune).

Tra i numerosi altri casi citati nell’articolo di Marinella Correggia, ne riprendo qui uno di carattere internazionale: il Programma Comunitario KONVER, destinato a favorire le riconversioni e le trasformazioni strutturali delle industrie del settore difesa colpite dalla crisi degli armamenti nonché di recupero ambientale dei siti e delle aree militari dismessi. I programmi erano finanziati congiuntamente dagli Stati membri e dalla Comunità, con un contributo della Comunità fino alla fine del 1997 stimato in 500 milioni di ECU. Sulla Gazzetta Ufficiale n.139 del 16-6-1994 è documentata la partecipazione dell’Italia:

Definizione, coordinamento e finanziamento della partecipazione italiana al programma comunitario Konver di riconversione dell’industria bellica. Il Programma prevedeva la creazione di imprese a prevalente partecipazione giovanile, alla riconversione, ampliamento e ammodernamento di laboratori, alla riconversione di dipendenti in esubero, alla formazione professionale e alla assistenza tecnica. Purtroppo non ho trovato informazioni sui progetti attivati e sul loro esito: informazioni che sarebbero utili a imparare dall’esperienza.

Marinella Correggia racconta che il più recente tentativo dal basso per la riconversione di un’azienda militare è quello del Comitato riconversione Rwm in Sardegna. “La difficoltà a co-definire con sindacati e lavoratori Rwm piani di riconversione ha spinto il Comitato a preparare sul territorio un’alternativa all’occupazione bellica. Ciò si è tradotto nel progetto Warfree per supportare le imprese ecosostenibili ed etiche della Sardegna in maniera da facilitare lo sviluppo di un solido tessuto economico solidale alternativo all’industria bellica.”

Il Progetto Warfree è di particolare interesse per una varietà di motivi: illustra un conflitto tuttora in corso, che non riguarda solo più un sito industriale ma coinvolge un vasto territorio; è molto ben documentato, grazie al lavoro di ricerca portato avanti nel tempo da alcune studiose dell’Università di Cagliari, Maria Letizia Pruna e Margherita Sabrina Perra[2].  Il loro articolo documenta in modo analitico e sistemico le dinamiche del conflitto, e costituisce una preziosa lettura per chi intenda approfondire il tema della riconversione industriale, grazie alla rigorosa metodologia dello studio e alla riflessione sulla dimensione etica.  Come spiegano le Autrici nel sommario,

 L’azienda è coinvolta da sei anni in un duro conflitto politico che ha al centro la produzione e il lavoro di alcune centinaia di addetti dello stabilimento di Domusnovas (Sud Sardegna), noto come la “fabbrica di bombe”, diventato un caso internazionale alla fine del 2015 a seguito di un’inchiesta del “The New York Times”. Il metodo della ricerca è quello della protest event analysis (PEA), che ricostruisce il ciclo della protesta. I risultati della ricerca evidenziano il ruolo fondamentale svolto da un ampio movimento sociale nel ridare valore alla dimensione etica del lavoro in un territorio povero di lavoro.

Particolarmente interessante nell’analisi di Pruna e Perra è la riflessione critica sui ruoli giocati dai vari soggetti coinvolti nel conflitto: le irregolarità e le inadempienze della parte pubblica, la strategia dei sindacati marcatamente a difesa dell’azienda, la difesa dell’occupazione da parte dei lavoratori, e infine la natura politica della lotta portata avanti dal Comitato, impegnato a coinvolgere la popolazione nel valorizzare le ragioni etiche – sia sociali che ambientali  – del conflitto in corso.

Imparare dalle esperienze

Il panorama di iniziative volte a riconvertire industrie belliche ad attività orientate alla pace non ha rappresentato fino a oggi una valida piattaforma da cui partire per nuovi progetti, a causa della frammentazione delle informazioni e della scarsa documentazione dei processi e degli esiti di queste esperienze.

Non esistono ad oggi gruppi di ricerca esperti e consolidati in grado di mettere in campo competenze in questo settore, che richiede una sempre più elevata capacità di raccogliere dati  e collegarli in una visione sistemica inter- e trans-disciplinare. Il passaggio dall’ambiente circoscritto della fabbrica all’intero territorio, documentato dalle dinamiche in atto nel caso della fabbrica di armamenti Rwm in Sardegna, rende evidente che i soggetti coinvolti nel processo sono sempre più numerosi e diversificati, e riguardano geografie e poteri trans-nazionali. Come sottolinea Marinella Correggia nel suo articolo, “la riconversione a cui punta Warfree va oltre la fabbrica di bombe e abbraccia l’intera isola, riguarda gli effetti degli insediamenti delle imprese multinazionali, le servitù militari, il degrado ambientale”. La documentazione messa a disposizione dalle studiose dell’Università di Cagliari costituisce un riferimento prezioso sia per imparare dall’esperienza, sia per orientare consapevolmente le prospettive future e creare collaborazioni.

Dalle critiche a una nuova progettualità: ostacoli crescenti

Le critiche avanzate due anni fa da Elio Pagani [3] – presidente di “Abbasso la Guerra” –  rispetto ai programmi di riconversione tentati in passato in Italia sono in qualche misura ancora valide. L’Autore osservava che negli ultimi anni molti, all’interno del movimento per la pace italiano, hanno invocato e proposto la riconversione della industria bellica, senza avere le idee chiare né piani concreti per l’azione. Pagano richiamava alle loro responsabilità anche altri soggetti:

“Quante risorse hanno messe le associazioni pacifiste? E i sindacati? Gli enti locali (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni)? E quante ne ha messe a disposizione lo Stato? Quante a livello europeo?

Nella lista delle debolezze e incompetenze segnalate da Pagano vi è: (a) la scarsa considerazione dei costi dei lavoratori (in termini di occupazione, di salario o di condizioni di lavoro) e il ricatto occupazionale cui erano sottoposti; (b) la sottovalutazione del problema del trasferimento tecnologico da un prodotto ad un altro o da processi produttivi ad altri; (c) l’ambiguità delle proposte ‘dual use’, cioè della produzione di beni a doppio uso civile o militare.

La rapidissima accelerazione dell’innovazione tecnologica, e l’altrettanto rapida assunzione del controllo del comparto militare da parte di poche, grandi imprese multinazionali (accentuato dal business delle guerre) hanno reso sempre più difficile agire per la riconversione di aziende dalla produzione di armamenti verso prodotti utili alla collettività. L’attuale orientamento politico favorevole alla ‘difesa’ armata, la commistione tra proprietà pubblica e privata, le valutazioni economiche sopraffatte dalla finanziarizzazione, rendono sempre più arduo per la società civile riconoscere e contrastare la produzione bellica.

Vi è anche una crescente difficoltà da parte dei cittadini a identificare e ricomporre i frammenti delle linee produttive, spesso indicate con termini ambigui e assemblate in sedi diverse, che confluiscono a comporre un oggetto ad uso bellico. Inoltre, solo professionisti esperti nel settore informatico sono in grado di riconoscere ciò che si nasconde dietro i programmi – spesso protetti da segreto – che guidano le catene di produzione e che elaborano le istruzioni che gli oggetti prodotti (dai droni ai carri armati agli aerei) eseguiranno.

Scatole cinesi

E’ in piena fase di attuazione il Programma che vede impegnati l’Italia, il Regno Unito e il Giappone per la realizzazione del ‘Sistema di sistemi’, il GCAP,  il Global Combat Air Program. Così lo illustra l’azienda Leonardo, nelle pagine web destinate ai media:  Si tratta di un modello di nuova concezione, che presenta un design evoluto con un’apertura alare maggiore rispetto ai concetti precedenti per migliorare l’aerodinamica del velivolo. Un aereo da combattimento, dunque: i leaders industriali dei tre Paesi stanno lavorando insieme  […] utilizzando una serie di strumenti e tecnologie digitali innovative, tra cui il computer modelling e la realtà virtuali, che consentiranno di progettare il design dell’aereo sin dalla fase di concezione.

Le modalità di lavoro per la produzione del GCAP sono simili a quelle di altri prodotti a scopo bellico, frutto di accordi spesso internazionali, con sedi e impianti di lavorazione spesso dislocati in Paesi diversi. Anche il conflitto RWM in corso in Sardegna tra il Comitato di riconversione e l’azienda si inscrive in un contesto molto più ampio, che vede coinvolta a livello internazionale l’azienda Rheinmetall AG, con sede a Düsseldorf, leader di sistemi internazionali nel settore della difesa. A livello nazionale è attiva RWM Italia S.p.A., che dispone di due stabilimenti in Italia, a Ghedi e a Domusnovas, dotati di moderni laboratori per lo sviluppo, la ricerca e la produzione delle parti elettroniche richieste per i moderni, e futuri, sistemi d’arma.

E’ recentissima la firma di una joint venture tra Leonardo e Rheinmetall con l’obiettivo di formare un nuovo nucleo europeo per lo sviluppo e la produzione di veicoli militari da combattimento in Europa, che avrà sede legale a Roma e sede operativa a La Spezia.  La nuova società, denominata Leonardo Rheinmetall Military Vehicles, svolgerà il 60% delle attività in Italia per costruire nuovi carri armati destinati all’Esercito Italiano, inclusi l’assemblaggio, le attività di consegna e il supporto logistico.

Sorgerà forse anche a La Spezia un Comitato impegnato a contrastare la crescente partecipazione del nostro Paese alla promozione della ‘difesa’ armata?

Note:

[1] Mike Cooley. Architect of Bee? The Human Price of Technology, introduction by Frances O’Grady (Spokesman Press 2015).

[2] CONFLITTO POLITICO E VALORE DEL LAVORO. IL CASO RWM ITALIA (RHEINMETALL AG). Economia & Lavoro Saggi, pp. 83-99. Anno LVII, 2023, 2.

[3] Elio Pagani, “I passi della riconversione”, 22 settembre 2022 https://ecoinformazioni.com/2022/09/22/ipassi-della-riconversione/

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Elena Camino è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e Gruppo ASSEFA Torino.

 

 

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