(Italian) La Possibile Scelta di Nonviolenza dei Palestinesi e Israele
ORIGINAL LANGUAGES, 11 Jul 2011
Maria Grazia Enardu – Centro Studi Sereno Regis
Fra le nuove generazioni di palestinesi si sta diffondendo, con esiti ancora difficili da prevedere, una forma di lotta che, fino a poco tempo fa, sarebbe stata quantomeno definita bizzarra per quella regione: la nonviolenza. Di certo, se riuscisse a coinvolgere un grande numero di persone, rischierà di mettere in seria difficoltà l’esercito israeliano.
La lotta armata, in qualunque possibile forma, che oppone palestinesi e israeliani, ha per decenni costituito l’unica categoria di confronto tra i due soggetti. Solo l’avvio del processo di Oslo, con il riconoscimento di Israele da parte dell’OLP, ha aperto una strada diplomatica, peraltro spesso interrotta da crisi di vario tipo – politiche, militari – in un clima di sfiducia che si è acuito man mano che il tempo passava e la ricerca di una soluzione trovava sempre maggiori ostacoli: gli insediamenti in crescita, la quasi impossibile definizione di confini, la questione di Gerusalemme e quella dei profughi. Ognuno di questi aspetti interagisce con gli altri e basta poco, anzi nulla, per far scivolare indietro quei pochi progressi che saltuariamente si fanno.
L’idea che sia possibile per i palestinesi confrontarsi con Israele in altri modi è stata, per decenni, puramente teorica, se non francamente bizzarra.
Parlare ai palestinesi di nonviolenza, e dei suoi più visibili effetti, dall’India all’Europa orientale, e di personaggi come il Dalai Lama, o Martin Luther King o Gandhi poteva infatti avere effetti paradossali. Fino a pochi anni fa, il nome di Gandhi era noto in Israele e nei territori come l’appellativo cameratesco degli ambienti militari, di un signore che tutto era fuorché discepolo del Mahatma. Rehavam Ze’evì, detto appunto Gandhi, era un generale e poi politico, fondatore nel 1988 del partito Moledet,[1] che aveva come programma il cosiddetto “transfer” – ovvero lo spostamento, più o meno spontaneo, della popolazione arabo-israeliana da qualche altra parte. Il che dava a qualunque tentativo di introdurre un discorso sulla nonviolenza, magari sul grande modello dell’India coloniale, un’aura surreale. Ze’evì è morto assassinato nel 2001,[2] in un albergo di Gerusalemme Est, dove si faceva scrupolo di alloggiare quando era nella capitale, e da allora almeno questo equivoco è divenuto meno eclatante.
Nel corso degli ultimi anni, grosso modo dall’inizio della seconda Intifada, armata, iniziata nel settembre 2001 e ben diversa da quella, di sassi, del dicembre 1998, l’idea di un nuovo metodo di lotta ha cominciato a circolare. Anzi a insinuarsi, passando da un’aperta incredulità a un’organizzazione e un radicamento che l’hanno resa pian piano una concreta possibilità operativa, dai contorni sorprendenti.
Alcuni leader della nonviolenza hanno visitato Israele e incontrato i palestinesi, come il Dalai Lama o Nelson Mandela, altri, come il figlio di Martin Luther King e il nipote di Gandhi,[3] hanno tenuto incontri pubblici con i palestinesi, a platee perplesse ma comunque interessate. I discorsi di Obama sono stati ascoltati con attenzione critica, sia quello del maggio 2011, sia in particolare le parole pronunciate al Cairo nel giugno 2009, con le quali il presidente invitava ad abbandonare la violenza e imitare la pacifica e determinata insistenza degli afroamericani per ottenere pieni diritti civili.[4]
Quando si parla di pacifismo riguardo alla questione israelo-palestinese bisogna distinguere tra molti livelli e molti soggetti.
C’è il livello dei pochi pacifisti veri, quelli che credono che la nonviolenza sia davvero l’unico modo di risolvere i conflitti. Ma c’è soprattutto il livello di chi prova con la violenza e, pian piano, vede che non solo non funziona e aggrava i problemi, ma è una strategia che conduce, inevitabilmente, a un’irrecuperabile sconfitta e a un deterioramento interno.
Questo spiega la paradossale presenza, nel campo di chi cerca la pace e crea associazioni o movimenti, di ex capi dei servizi segreti israeliani,[5] soprattutto della sicurezza interna (Shin Bet), che conosce la situazione benissimo e che sa che la diga del controllo dei palestinesi può essere continuamente rafforzata, ma è comunque destinata a cedere; ma anche di palestinesi che hanno provato con violenza crescente a smuovere Israele, hanno fallito e ora hanno intenzione di provare altre tattiche, apparentemente nonviolente ma altrettanto militanti.
Il soggetto di questo breve saggio non è certo la galassia dei movimenti pacifisti in Israele, che comprende di tutto, da associazioni di militari o riservisti, Yesh Gvul, Breaking the Silence, i Refusnik[6] – giusto per citare le più importanti – a gruppi di civili, come Machson Watch o religiosi, come Rabbis for Human Rights. Il più grande movimento pacifista, Peace Now, nacque peraltro per iniziativa dei militari nel 1977.
Ci sono anche molte associazioni che non solo riuniscono israeliani e palestinesi, ma che arrivano a una scelta di nonviolenza in seguito a esperienze di vita esattamente opposte, come militanti palestinesi e soldati israeliani. È il caso di Combatants for Peace, la cui principale attività, oltre a incontrarsi e scambiarsi esperienze della loro vita passata, consiste nell’educare i giovani, usando se stessi come esempi da non seguire.
Questi gruppi hanno collaborato per anni con i palestinesi, soprattutto se in difficoltà, ma non costituiscono il tema di questo articolo, che è invece il “pacifismo” palestinese inteso come metodo di lotta nuovo, autoctono o quasi, senza troppi contatti con israeliani di buona volontà, semmai con legami – di informazione e raffronto – con gruppi esteri, del mondo arabo ma anche occidentale.
Va sottolineato che c’è anche un dislivello generazionale tra la vecchia guardia palestinese, della generazione di Arafat o Abu Mazen, così connaturata alla lotta armata, la generazione successiva, come Marwan Barghouti – che pure ha la visione tattica per cambiare metodi – e la generazione dei ventenni di oggi, i quali hanno a volte esperienze di studio e di vita all’estero e considerano la sconfitta delle Intifade non come un fallimento da riscattare ma come un dato di fatto su cui costruire, e in modo diverso, una strategia di lungo periodo, tanto hanno ancora una vita davanti.
Inoltre il termine nonviolenza va reinterpretato, decostruito. Chi per primo ne parlava, tra i palestinesi, all’inizio dello scorso decennio, come Mubarak Awad,[7] suscitava ilarità o addirittura disprezzo,[8] sia tra i palestinesi sia tra gli israeliani. Solo quando, tramite il paziente lavoro di associazioni o semplicemente perché cambiava la percezione e la cultura, si è passati dal concetto di nonviolenza visto in termini passivi a un significato attivo,[9] cioè non di semplice rinuncia a una reazione significativa ma a un’azione concreta, allora la parola è uscita dal recinto dove era stata chiusa. Magari evitando l’altro rischio, ovvero che la nonviolenza venisse percepita, e lodata, da Israele perché appunto liberava dal timore di attentati e quindi permetteva di continuare la politica di sempre.
Tutto sommato, operare in termini nonviolenti da soli,[10] e senza troppe discussioni teoriche con pacifisti israeliani, dava ai palestinesi tempo e modo di rielaborare pragmaticamente il concetto stesso e i metodi, di renderli assolutamente propri.
Tanto che, quando se ne cominciò a discutere, i palestinesi scoprirono che avevano un qualche passato di nonviolenza, risalente addirittura agli inizi del Novecento, o che la chiamavano diversamente, come il lungo sciopero di sei mesi del 1936,[11] contro l’immigrazione ebraica e la vendita di terre agli ebrei. Uno sciopero diretto contro gli inglesi, per ottenere una profonda revisione della politica delineata nella Dichiarazione Balfour, ma anche contro gli ebrei, boicottandone merci e servizi ma purtroppo ottenendo l’effetto paradossale di rinforzarne l’autonomia. Allora la chiamavano resistenza, o disobbedienza, ma fa lo stesso.
Addirittura, con un passaggio che molti possono trovare azzardato, anche la prima Intifada aveva aspetti di nonviolenza. Per gli israeliani fu l’Intifada delle pietre, che potevano colpire e ferire i soldati – tanto che l’allora ministro della Difesa Rabin diede il famoso ordine: «rompetegli le braccia». Ordine che aveva una sua brutale ovvietà – il braccio che tirava sassi andava spezzato – ma pure una sua convoluta logica umanitaria – i soldati avevano ordine di spezzare ossa, non di sparare, come invece avveniva troppo spesso.
Resta comunque il fatto che la prima Intifada, con dimostrazioni, scioperi, scritte e volantini, fu anche e soprattutto nonviolenta, dando a questo termine un significato comprensivo. C’era una precisa rinuncia all’uso di armi ed esplosivi, quindi alla lotta armata in senso classico, con la notevole eccezione delle bottiglie molotov – peraltro oggetto di uso frequente in molte dimostrazioni in giro per il mondo fronteggiate dalla polizia. Lo scopo era rappresentare l’Intifada come la lotta del ragazzo arabo armato di una pietra contro il carro armato israeliano, immagine ben lontana, in paragone, dal sacchetto di plastica in mano al ragazzo cinese di Tienanmen, ma dirompente. Infatti, a livello subliminale, consciamente o inconsciamente, richiamava alla mente di molti la figura di Davide, e delle sue pietre, mortali, scagliate contro il corazzato Golia.
Oggi, con il processo di pace bloccato, si riparla di un’Intifada, ma diversa, di azione di popolo o azione civile,[12] con atti di disobbedienza, di boicottaggio di merci e servizi (creando canali e alternative propri) e di azioni simboliche ma in ogni caso assertive,[13] per evitare che il terzo round sia ancora più disastroso del secondo.
Il concetto di nonviolenza è inoltre spesso usato come aggettivo e in associazione con resistenza, come se il termine resistenza nonviolenta possa essere insieme sia l’obiettivo da raggiungere sia la presentazione migliore per quanti sono coinvolti e in primissima fila, cioè i palestinesi stessi. Nella stessa logica, c’è chi preferisce parlare di Intifada bianca, tra le obiezioni di chi preferisce archiviare il concetto stesso di Intifada, che poi ha il semplice significato di sollevazione e tradurlo come rivolta può solo falsarlo.
Il che porta al problema di cosa sia esattamente la nonviolenza, se essa sia definibile in termini assoluti o contestuali. E più ancora, se vada considerata una forma di pacifismo, come porgere l’altra guancia, o se possa invece essere vista in termini militanti e politici, di puro calcolo di costi e ricavi, considerando che la seconda Intifada ha avuto risultati minimi e comunque dubbi, se non francamente disastrosi, che bisogna cambiare strategia e che la resistenza nonviolenta può essere un’idea valida, perché è un’arma contro Israele o perlomeno contro l’occupazione. E infatti la parola arma, addirittura arma finale,[14] ricorre in cronache e analisi, con ironia o sul serio, dipende.
Per i palestinesi, una diffusa applicazione della nonviolenza ha diversi scenari, diversi obiettivi.
C’è il consolidamento di un movimento interno, che si eserciti e si formi su questo fronte, acquistando esperienza, autorevolezza, leadership.
C’è un legame che si viene a formare con i pacifisti israeliani, che collaborino o no con i vari gruppi palestinesi, e con quella parte dell’opinione pubblica in Israele che vorrebbe una nuova politica, un’occupazione diversa e magari la pace vera. C’è uno scenario internazionale su cui porsi, liberandosi del connotato di terrorista, prima attribuito ai palestinesi tutti, poi passato ad Hamas – ma si sa, non sempre l’opinione pubblica internazionale distingue e la confusione può costare cara.
Salam Fayyad, dal 2007 primo ministro di un governo tecnico dell’Autorità palestinese, sia pure limitato al West Bank, ha anche lui dato una definizione di nonviolenza, raccomandando in molte occasioni pubbliche una condotta di sumud (costanza, tenacia), in linea con il suo programma di institution building, che richiede molte cose ma soprattutto un contesto di società civile che nasce e si rafforza dal basso, affinché i risultati non si disperdano al primo incidente.
Naturalmente, chi pensa alla nonviolenza in un contesto arabo, se non proprio islamico – e va ricordato che i palestinesi sono relativamente laici e che anche Hamas ha connotati che la rendono moderata, nel contesto mussulmano – si trova immediatamente a considerarla non solo in totale contrapposizione con la lotta armata, che per decenni era considerata unica via di resistenza, ma soprattutto a quel particolare tipo di lotta che molti chiamano, sbrigativamente, jihad. Parola che correntemente indica la guerra santa, da Maometto a Bin Laden, ma che ha un significato originario diverso: vuol dire lotta, sforzo, e può avere ogni possibile contesto, anche spirituale, di perfezionamento nel seguire l’insegnamento del Profeta.
Sebbene moltissimi considerino l’Islam come una religione che non prevede la nonviolenza, ci sono voci che sostengono il contrario. D’altra parte, un testo complesso come il Corano, con il suo enorme corpo di tradizioni e interpretazioni, permette di collocarvi di tutto, e di trovarvi insegnamenti spesso trascurati, come la versione della storia dei figli di Adamo non espressamente nominati, ma per definizione Caino e Abele, secondo la quale quest’ultimo – pur sapendo che l’altro lo ucciderà – dice che non alzerà la mano contro di lui. Quindi, nella versione islamica del primo omicidio, c’è una precisa scelta di nonviolenza, da non dimenticare.
Un altro insegnamento simile viene dallo stesso Maometto, il quale lanciò una guerra santa contro gli infedeli, e dunque anche contro le tribù di ebrei presenti in Arabia, che rifiutavano il suo insegnamento. Tutto questo però avvenne solo dopo l’anno zero, ovvero secondo il calendario arabo quello della fuga di Maometto dalla Mecca a Medina, l’Egira.
Nei tredici anni che precedono questo avvenimento, tuttavia, il Profeta non usò mai la violenza e quando vi ricorse, appunto dopo la fuga, fu per autodifesa contro gli abitanti della Mecca che lo inseguivano per ucciderlo e, forse, pure per avere esaurito la pazienza politica.[15] Ne consegue che la jihad armata è permessa, ma non è un ideale, concetto che richiede una pausa di riflessione. Dimentichiamo infatti spesso che Islam ha la stessa radice di salaam, pace, e che le guerre arabe dei primi secoli di espansione proibivano severamente di attaccare donne, bambini e anziani, che oggi definiremmo civili.
Concetti che si ritrovano nell’insegnamento di Abu Sway e altri come lui, voci di una minoranza religiosa che è dentro l’Islam, non è eretica, né marginale, né religiosamente contestata, solo generalmente ignorata. Fatto questo che però potrebbe cambiare, in quanto di natura culturale.
La lotta armata palestinese ha inoltre un contesto temporale ben preciso: negli anni Cinquanta le incursioni di feddayin partivano soprattutto da Egitto e Giordania, che conducevano una guerra di attrito contro Israeleusando i palestinesi. Questi ultimi cercarono di guadagnare un ruolo autonomo solo a partire dagli anni Sessanta, con la fondazione di Fatah prima e dell’OLP poi, (creando uno Stato virtuale, visto dai giordani come uno Stato nello Stato, quindi pericoloso per il loro regno) e di fare quello che facevano tutti gli altri movimenti di indipendenza dell’epoca, dall’Algeria al Vietnam, dalla Malesia al Kenia. Con l’eccezione dell’India, si tratta di Stati nati da una lotta violenta per l’indipendenza. Senza un Mahatma, nessuno usciva dal tunnel della lotta armata e non va nemmeno dimenticato che l’insegnamento di Gandhi puntava non solo a mandar via gli inglesi ma anche a evitare la spaccatura dell’India e la guerra civile.
Il target primo, se non primario, della nonviolenza è naturalmente l’avversario, o forse, in un contesto nonviolento sarebbe meglio dire la controparte.
Per i palestinesi gli interlocutori sono essenzialmente due soggetti, i coloni e l’esercito, e poi, sullo sfondo, l’opinione pubblica, internazionale prima e israeliana poi, perché sono tutti convinti che per arrivare alla seconda occorre passare dalla prima.
La categoria dei coloni si è molto differenziata negli anni. Negli anni Ottanta[16] era in gran parte composta da elementi ultranazionalisti, che considerano il vivere in quella che chiamano – e giustamente – Giudea e Samaria, ovvero il cuore dell’antico Israele, diritto irrinunciabile, divino o meno poco importa. Più recentemente, soprattutto per ragioni economiche, è arrivata nel West Bank una fascia di popolazione che non ha mai toccato un fucile, gli ultraortodossi, soprattutto in cerca di case a buon prezzo per le loro famiglie numerose.
I coloni hanno i loro capi, le loro istituzioni, le loro idee, i loro metodi, sono abitualmente armati di mitra, sono sempre protetti dall’esercito, anche quando commettono azioni che in altre parti del paese sarebbero considerate veri e propri reati. Anzi spesso si risentono se l’esercito cerca di limitarne la libertà di azione, per prevenire aggressioni ai palestinesi e alle loro terre e, a volte, per impedire la proliferazione incontrollata di avamposti.
Ma il vero interlocutore dei palestinesi nonviolenti è l’esercito, onnipresente, sia in termini militari sia amministrativi e burocratici (concessione di licenze, permessi ecc.).
Ed è lì che la questione si complica più del prevedibile, perché l’esercito di Israele, da oltre quarant’anni occupante, non si considera un esercito come tutti gli altri.
L’esercito ha un’identità che si è formata nel corso delle guerre, quasi tutte vinte bene, con i paesi arabi confinanti, ma ha anche la precisa percezione che il nemico palestinese, dai miliziani armati (Libano, Gaza, in passato pure Giordania e Egitto) alla popolazione ostile, siano un banco di prova che, da una parte, li sfida e, dall’altra, proprio per la povertà dei mezzi, li avvilisce in tattiche e tecniche che per certi versi ne compromettono la funzionalità. Battersi contro un esercito nemico classico richiede impegno e arte militare, ma lottando contro un nemico diffuso e sfuggente si scade nella guerriglia, che è sempre persa, comunque vada.
La seconda Intifada, con l’uso esteso della violenza da parte dei palestinesi, ha liberato l’esercito da molti scrupoli: per garantire sicurezza bisognava uccidere, arrestare, demolire, impedire movimenti, estendere le zone interdette e così via. Se su questa forma mentis piomba la nonviolenza il primo immediato effetto è la confusione, l’esasperazione – soprattutto per gli effetti paradossali di alcune iniziative – e la reazione, che può essere armata o comunque duramente violenta perché non si sa che altro fare.
L’esercito di Israele ha molte funzioni, alcune ovvie come la difesa e la sicurezza, altre visibili, come l’integrazione degli immigrati e la costruzione di un modello di cittadino-soldato, come era anche nella fase pre-Stato. Ma c’è una funzione meno visibile e non meno importante, quella di dimostrare a tutti, e soprattutto a se stessi, che l’ebreo del ghetto o della diaspora – debole, inevitabilmente vittima e troppo a lungo disprezzato, dagli antisemiti di sempre ma anche da molti israeliani di oggi – è stato finalmente rimpiazzato da un ebreo, anzi da un israeliano, vincente.
L’esercito teme sopra ogni cosa chiunque metta in discussione, sul piano militare o altro, tutti i suoi ruoli e la nonviolenza è vista quindi come uno spettro terrificante,[17] come l’arma finale.[18]
L’esercito ha molto temuto la prima Intifada, che vedeva come risposta al lancio di pietre l’uso di armi, in una spirale inarrestabile, lasciata alla gestione di ufficiali impreparati a quello che doveva essere un compito di polizia, non militare.
La seconda Intifada fu quasi un sollievo,[19] perché l’esercito sapeva come rispondere al fuoco, anzi ci sperava. Inoltre, Israele voleva dimostrare ai palestinesi che la nonviolenza non pagava, che non c’era alcuna differenza nella reazione tra azione violenta e non violenta.[20] In questo modo si voleva disinnescare, letteralmente, l’unica arma palestinese che poteva avere risonanza, all’interno e all’estero.
La spirale di violenza causava perplessità anche ad Hamas, perlomeno riguardo all’effetto finale: si aiutava Israele a ottenere l’appoggio internazionale,[21] visto che la risposta militare era posta, inevitabilmente, in termini di sicurezza, e in modo chiaro.
L’esercito ha aspetti che potremmo definire antimilitaristi, come una disciplina formale rilassata e una grande flessibilità lasciata ai comandanti locali, retaggio della milizia pre-Stato.
Ha uno statuto che esalta il ruolo difensivo, parlando anche di «purezza delle armi» e una precisa norma che impone di disobbedire a ordini illegali o immorali. E se disobbedire in corso d’azione è forse difficile per qualunque soldato, dopo lo è meno. Infatti i più importanti movimenti pacifisti di Israele, come detto, hanno avuto come origine i militari, di carriera e riservisti. E oggi i movimenti più critici, e ovviamente più informati su quanto accade davvero, sono sempre formati da militari.
I primi segnali si videro già nel 1967, con un libro di testimonianze di soldati, “Il Settimo giorno”, che scosse molti: erano soldati vittoriosi ma anche angosciati, che si chiedevano, allora, cosa sarebbe successo ora che erano diventati un esercito di occupazione.
Tutte dinamiche che non consentono di vedere l’esercito semplicemente come uno strumento di repressione, secondo gli ordini del governo di turno, ma come un possibile interlocutore, sia pure complicato. Anche perché l’esercito ha sempre una percentuale significativa di riservisti, in servizio per circa un mese l’anno, persone la cui vita ha una dimensione civile appena interrotta dal breve periodo di richiamo, cittadini più che soldati, non giovani reclute o militari di carriera, sottoposti a un ambiente pur sempre gerarchico.
Il paradosso è che, di fronte a un’opinione pubblica apatica e diffidente sia verso la propria classe politica sia verso la ricerca di una vera soluzione, chi cerca di dare informazioni su quello che veramente accade sono i giornalisti, spesso allontanati o vincolati dalla censura, o gli stessi militari, tramite associazioni o iniziative, come Breaking the Silence.
L’esercito, e soprattutto il corpo ufficiali, sta rapidamente cambiando, come cambia tutto il paese. Fino a 15-20 anni fa la percentuale di ufficiali provenienti dai kibbutz, e quasi tutti di sinistra, era assai alta, e la presenza di ufficiali ebrei ortodossi praticanti abbastanza bassa. Oggi, il corpo ufficiali è molto più differenziato e il crescente numero di militari, anche di carriera, di osservanza religiosa pone ulteriori problemi, perché introduce nella catena di comando, sia pure informale, i rabbini militari, spesso vicini al movimento dei coloni. Questo cambia il modo in cui vedono il West Bank e i suoi abitanti, palestinesi o ebrei, e ci sono assai delicati problemi per quei militari, ufficiali di carriera in particolare, che vivono negli insediamenti.
L’aumento delle dimostrazioni, con o senza sassi o comunque senza armi vere e proprie, ha costretto l’esercito (in cui comprendiamo anche la famosa Border Police, spesso considerata ancora più dura) a inventarsi nuovi metodi, tra tecnologia nuova e vecchi trucchi. Ufficialmente si usano proiettili cosiddetti di gomma o meglio con punta di gomma, che però possono essere mortali.
L’uso di gas lacrimogeni può apparire scontato, ma le nuove granate al gas hanno la forza di piccoli razzi, e sono altrettanto pericolose.[22] Inoltre un particolare tipo di lacrimogeno, il CTS, di fabbricazione americana, ha effetti particolarmente gravi, e ha causato alcune vittime.
Poi c’è il cosiddetto Urlo, ovvero una macchina che produce suoni insopportabili, una sorta di raggio (ADS, Active Denial System) che causa una forte sensazione di ustione. E tra le armi non letali non dimentichiamo il cosiddetto “succo di puzzola”, sparato da cannoni ad acqua con liquidi disgustosi, o sostanze chimiche che puzzano terribilmente o – si dice – anche liquami veri e propri, con i quali vengono cosparsi persone e case, con conseguenze immaginabili e perduranti.
Proprio in questi giorni, dopo il tentativo di sconfinamento di palestinesi da Libano e Siria in occasione della ricorrenza della guerra dei sei giorni del giugno 1967, si studia come evitare e contenere altre “invasioni” pacifiche, senza causare altre vittime, non solo lungo la linea di armistizio di Libano e Siria, dove instabilità e strumentalizzazioni sono anch’essi fenomeni importanti, ma soprattutto dentro il West Bank. Dove l’ormai invisibile Linea Verde, la vecchia linea di armistizio ante 1967, e la molto più visibile barriera di sicurezza, costituiscono linee che possono diventare obiettivo di manifestazioni di massa.
Ma le armi più usate, da una parte e dall’altra, sono letteralmente i nervi. Gli israeliani sperano, e anzi contano, sul fatto che in qualche modo il fronte nonviolento non reggerà e non crescerà, e che prima o poi si tornerà alla violenza, il che permette altre e più gestibili dinamiche.
I palestinesi sperano di far saltare la pazienza degli israeliani, costringendo i soldati a scelte controproducenti o che aprano fissioni in campo israeliano. Per molti anni, le Intifade sono state letteralmente guerre di ragazzi, giovani palestinesi in keffiyah contro giovani israeliani in uniforme, con la spirale di violenza che il confronto tra coetanei comportava. Il movimento nonviolento, con la partecipazione di donne e anziani, elimina questa pericolosa, e soprattutto inutile, dinamica.
La nonviolenza ha avuto grandi figure di riferimento, come Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, Lech Walesa, Vaclav Havel, il Dalai Lama, leader carismatici e a modo loro assolutamente radicali, ma è per definizione un movimento di massa, dove può funzionare benissimo l’assenza di leader di quel livello, perché questo responsabilizza ancora di più ogni singolo partecipante in ogni momento di azione.
I palestinesi da una parte quasi rimpiangono di non avere un leader carismatico, a volte si chiedono se figure come Awad abbiano avuto un ruolo troncato, ma ben più spesso hanno chiaro che se il nascente movimento di nonviolenza è diffuso, anarchico, certo non coordinato, questo è un vantaggio.
Considerato che essere individuati dalle forze di occupazione come leader nonviolenti è un sicuro modo di finire in galera, in detenzione amministrativa, e questo vale anche per cittadini israeliani come Ezra Nawi,[23] la lezione delle Intifade è sempre valida.
Una leadership diffusa, come fu quella della prima Intifada (anche se Arafat si sforzò di cavalcarla come poteva), e come la leadership militare della seconda Intifada, dove i vari gruppi armati agivano spesso per proprio conto, fosse solo per pure necessità tattiche, è valida anche per un’Intifada nonviolenta: più sono i leader, più l’iniziativa e l’azione sono condivise, meno la si può fermare. Il che ha inevitabilmente conseguenze politiche all’interno del campo palestinese stesso.
È infatti perfettamente ipotizzabile che nella recente e sorprendente unione di Hamas e Fatah, che ancora devono trovare una formula di governo ma sono intenzionati a provarci, non ci sia solo la necessità di avere una voce unica e di evitare che Israele sfrutti la tradizionale divisione palestinese, ma anche l’esigenza di governare il cambiamento, qualunque esso sia, tenendo conto che è una fase di passaggio generazionale
La primavera araba ha insegnato a tutti, anche alla leadership palestinese ufficiale, che esiste una massa di giovani, appena bambini ai tempi della seconda Intifada, cresciuti dentro l’occupazione, con un buon grado di istruzione e di contatti, che come i loro coetanei arabi studiano gli scritti di Gene Sharp[24] e adattano esperienze anche assai lontane alla propria condizione.
Sono loro che vogliono qualcosa di ben diverso di un banale avvicendamento tra vecchi ed ex giovani, cioè una leadership davvero nuova, anche se è paradossale considerarla tale, forse sarebbe meglio definirla la punta di un iceberg di un nuovo mondo palestinese. Una leadership dal basso,[25] peraltro più efficace perché non individuabile e quindi arrestabile, anzi caratterizzata da una larga partecipazione tra chi venne per definizione escluso dalle fase precedenti, come donne e anziani, tanto da poter definire tutti i partecipanti come azionisti dello Stato che si vuole costruire.[26]
Ma per far questo bisogna lavorare per raggiungere la massa critica, a suo modo d’urto, e occorre superare la stanchezza, la sfiducia nell’attuale leadership che provoca inerzia e diffidenza. I palestinesi non sono più disposti agli enormi sacrifici fin qui fatti e tra loro serpeggia una rabbia incontenibile, che attende solo una scintilla – possono passare anni, ma così sarà.[27]
A quel punto troverà una leadership diversa, diffusa, nuova. E forse anche meno legata all’esterno, nel senso che i nuovi che stanno emergendo, e di cui si tenta in qualche caso di fare i nomi, non considerano prioritaria la collaborazione con i pacifisti israeliani, hanno l’orgoglio di voler fare da soli, fosse solo per togliere a Israele una sorta di alibi morale, di essere insieme occupante ma anche sostenitore.
La nonviolenza ha anche uno scopo di lungo periodo, non limitato alla cessazione dell’occupazione, ma proiettato nel creare le condizioni per il binazionalismo, concetto che è la bestia nera di Israele, poiché è considerato come la pura negazione del sionismo e quindi di ogni sforzo finora compiuto per creare uno Stato ebraico e mantenerlo. In un’area così piccola e affollata, con risorse limitate come l’acqua, la creazione di uno Stato palestinese rende imperativo un alto grado di cooperazione regionale, sia con lo Stato di Israele sia con la Giordania. Soprattutto una zona economica comune, che avrebbe anche vantaggi enormi per Israele, danneggiato dal boicottaggio palestinese, ma anche la gestione comune di zone indivisibili, come Gerusalemme e il suo enorme flusso di visitatori, che non vogliono inciampare in inutili confini. Sarebbe, in un certo senso, un binazionalismo reinventato,[28] ognuno a casa propria, ma inevitabilmente nel tempo l’integrazione e la cooperazione dovrebbero aumentare. Già negli anni Trenta, prima di pensare alla spartizione, gli inglesi avevano considerato l’ipotesi di cantonizzazione, salvo ammettere che la Palestina non era certo la Svizzera. La nonviolenza può nel tempo alterare questo pessimismo e sarebbe un risultato politico di estremo rilievo.
Il percorso è però assai lungo e di assai incerto esito. È vero che il movimento nonviolento acquista seguaci, alcuni convinti da una visione strategica d’insieme, altri più banalmente persuasi che è un’ottima tattica per far ammattire gli israeliani. È sempre vero che sul piano internazionale funziona, sia perché evita le condanne verso gli atti terroristici, sia perché acquista una base morale indiscutibile. Ma ha anche grossi limiti, soprattutto – e parliamo di azioni di un qualche rilievo – perché la nonviolenza non funziona se non diventa visibile.
Questo pone il problema dell’informazione, che in parte è superato da internet, ma anche dell’impatto su media più tradizionali. Facebook e Twitter contano, ma soprattutto – e vale ancora la lezione di Walter Cronkite sul Vietnam – conta di più il prime time in televisione.
Tuttavia i media tendono anche a ignorare i fenomeni che si ripetono, in una sorta di assuefazione, e così si scopre che manifestazioni che vanno avanti per anni, vedi a Bil’in contro la barriera di sicurezza, sono ignorate. Particolarmente carente è poi l’informazione in Israele, perché – si dice – il pubblico non vuole queste notizie. Solo quando ci scappa il morto, soprattutto straniero, c’è una maggiore e momentanea attenzione, che però non è sostenibile. È quindi inevitabile, e gli israeliani lo sanno e allo stesso tempo lo temono, ci si stanno preparando, che il livello salga in qualche modo, sempre nonviolento ma capace di passare la barriera del disinteresse.
Gli scenari possibili sono classici, gandhiani: masse di palestinesi, soprattutto donne, che circondano checkpoint, che impediscono l’uso delle strade riservate ai coloni nel West Bank, isolando gli insediamenti, che subiscono senza cedere l’uso dei metodi “nonviolenti” dell’esercito. Appunto, una reinvenzione del modello gandhiano delle marce per il sale.[29] Le donne di Budrus, su cui è stato girato un documentario, trascinate da una ragazza di quindici anni sono riuscite nel 2004 a ottenere lo spostamento della barriera di sicurezza, perché l’esercito, dopo averci provato in ogni modo, ha dovuto arrendersi. Proprio in questi giorni la lunga protesta del villaggio di Bil’in, dove era stato in visita anche l’arcivescovo Desmond Tutu, ha raggiunto un parziale ma importante successo: la barriera di sicurezza che aveva tagliato fuori metà delle terre del villaggio è stata in parte demolita, ma Bil’in rivuole indietro tutte le sue terre, la protesta continuerà.
Chiunque abbia anche un’elementare conoscenza della storia della lotta nonviolenta sa che può assumere connotati estremi, e che lo Stato che si oppone alla nonviolenza – e rimaniamo in ambito di democrazie – difficilmente resiste alla tentazione di ignorare diritti elementari, mascherare fatti e reazioni, su una china che tra violenza e segreti mina lo Stato stesso. Gli esperti in materia sono gli inglesi, che negli ultimi due secoli hanno affrontato massicci fenomeni di nonviolenza in India, Irlanda, Egitto, ma anche proteste individuali, durissime.[30]
Israele stesso ha un’idea precisa, l’evacuazione dei coloni da Gaza, che richiese uno sforzo immenso proprio perché quasi tutti i coloni si opposero e molti dovettero esser portati via di peso ma con cura massima e un impiego di forze sproporzionato. Sempre in Israele o meglio nel West Bank ci sono state dimostrazioni di coloni che hanno visto in prima linea ragazze, e l’esercito ha usato verso di loro una dolcezza inusitata.
La preoccupazione con cui Israele ha seguito la primavera araba non è dovuta quindi solo alla modifica dell’assetto regionale che un nuovo Egitto e forse una nuova Siria possono provocare, ma al fatto che in questi paesi come anche in Tunisia, Yemen, Bahrein c’è stato un massiccio uso della nonviolenza. Se un regime autoritario non sempre si sente di sfidare la piazza, una democrazia oggi ha le armi spuntate, soprattutto quando la protesta proviene da una popolazione non propria.
La data segnata sul calendario è quella dell’Assemblea generale dell’ONU, a metà settembre, con un possibile, ma non certo scontato, documento sulla nascita vera o riconoscimento di uno Stato palestinese. L’esercito israeliano si sta preparando con esercitazioni di contenimento contro manifestazioni di massa, ma un anonimo ufficiale ha dichiarato, con inaspettato candore, che «una protesta nonviolenta di 4000 o più persone, che si limitino anche solo a marciare fino a un checkpoint o insediamento, e specialmente se la polizia palestinese non facesse nulla per fermarli, sarebbe impossibile da bloccare». Perché un gran numero di «persone decise non può essere fermato da lacrimogeni o pallottole di gomma».
Il senso di questa affermazione è subito chiaro nel passaggio successivo, di un altro ufficiale: «alla fine, la decisione è nelle mani dei politici… se non ci saranno progressi nelle trattative di pace, la polizia palestinese con cui collaboriamo da vicino per prevenire infiltrazioni perderà la pazienza».
Se anonimi ufficiali dicono la verità, un’altra fonte, definita del Comando centrale (regione militare di Giudea e Samaria, ovvero il West Bank), affetta maggior sicurezza, e dichiara che l’esercito ha metodi per fermare grandi proteste, sia tramite l’intelligence, sia radunando forze numerose per fermare i dimostranti in modo efficace.
Letta tra le righe, questa affermazione così apparentemente sicura poggia tutta sulla definizione di metodi e di intelligence, e lascia intravedere operazioni coperte.
In ogni caso, dichiarazioni così divergenti[31] sono un grave e preoccupante indicatore delle profonde differenze di valutazione tra il Comando e gli ufficiali sul campo.
Sarà un’estate di tensione, diplomazia, prove di schieramento.
Se i palestinesi proseguiranno e allargheranno l’ambito della resistenza nonviolenta all’occupazione israeliana e al continuo crescere, ufficiale o meno, degli insediamenti nel West Bank, questo non può che essere approvato e sostenuto anche dalla comunità internazionale. Ma senza dimenticare le enormi difficoltà che tutto ciò provocherà a Israele, che ne vedrà i pericoli non solo immediati ma in possibile prospettiva (arabi israeliani). Il che richiederà uno sforzo ulteriore della comunità internazionale, per creare condizioni di stabilità per tutti, anzi per l’intera regione. Perché l’alternativa è il ritorno della violenza e la guerra.
NOTE
[1] Moledet (Patria), poi confluito nel 1999 nell’Ichud Leumì (Unione nazionale), è un partito di estrema destra, che riunisce componenti nazionaliste e religiose.
[2] L’assassino apparteneva al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (PFLP), con posizioni marxiste, che contestava da sinistra la politica dell’OLP, di cui peraltro farebbe parte.
[3] Arun Gandhi, direttore del M. K. Gandhi Institute for Nonviolence, visitò il West Bank nell’agosto del 2004, partecipando a incontri a Ramallah, Abu Dis e Bethlehem. Soutik Biswas, Gandhi’s nonviolence message to Mid-East, BBC News, 25 agosto 2004.
[4] E. Press, Unarmed Protest: A New Palestinian Approach?, in “The New York Review of Books”, 14 giugno 2010.
[5] Ad esempio, Amy Ayalon, capo Shin Bet (1995-2000) e fondatore, con Sari Nusseibeh, nel 2003 della Voce del Popolo. Ma anche Efraim Halevy (Mossad, 1998-2002), che ha idee poco ortodosse su Hamas e altri.
[6] Termine che comprende diversi gruppi, da chi rifiuta di servire fuori dai confini di Israele (Yesh Gvul), quindi anche nei Territori, a chi esprime forme di disobbedienza motivata, pur in ambito militare.
[7] Mubarak Awad è un palestinese di Gerusalemme, non cittadino israeliano, che successivamente ha acquisito la cittadinanza statunitense. Attivo nel West Bank negli anni Ottanta, fu espulso nel 1988.
[8] M. Peleg, In Praise of Nonviolence. Both Palestinians, Israelis Need Their Own Martin Luther King, in “Yedihot Aharonot”, 2 settembre 2007.
[9] Rabbi Michael Lerner, Nonviolence in the Palestinian Struggle, in “Tikkun”, 13 febbraio 2007.
[10] Ibid.
[11] Ibid.
[12] What Are the Chances of a Third Palestinian Intifada?, in “Haaretz”, 4 ottobre 2009.
[13] Nonviolent Resistance, in “Palestine Monitor”, 15 marzo 2010.
[14] B. Burston, Palestinians’ Doomsday Weapon, Nonviolence, Fails Test, in “Haaretz“, 25 febbraio 2008.
[15] G. Gorenberg, The Missing Mahatma: Searching for a Gandhi or a Martin Luther King in the West Bank, in “The Weekly Standard”, 6 aprile 2009. Gorenberg cita Mustafa Abu Sway e soprattutto un libro del 1966, di un filosofo siriano, Jawdat Said, Il sentiero del figlio di Adamo.
[16] Nel periodo 1967-77, sotto i governi laburisti, vi erano pochissimi coloni nei Territori occupati. Solo con i governi Likud inizia la colonizzazione, che comporta non solo la costruzione di case ma anche di infrastrutture. Gli ultraortodossi, per ragioni di osservanza religiosa, si trasferiscono solo se certi di poter avere i servizi ritenuti essenziali, sia religiosi sia civili.
[17] U. Aloni, Israelis Are Behaving Like Spoiled Rich Brats, in “Haaretz”, 21 marzo 2010.
[18] Burston, op. cit..
[19] Ibid.
[20] M. Benvenisti, An Explosive Dangerous Balance, in Haaretz, 29 febbraio 2008.
[21] Hamas and Hezbollah “Beginning to Embrace Nonviolent Tactics”, in “Haaretz”, 3 luglio 2010.
[22] M. Sfard, Back to Warsaw 1968, in “Haaretz”, 4 settembre 2009.
[23] E. Bronner, Unlikely Ally for Residents of West Bank, in “The New York Times”, 28 giugno 2009. Nawi è un israeliano di origine irachena, regolarmente arrestato.
[24] Teorico della nonviolenza e autore di vari libri, pieni di consigli pratici, molto letti dai giovani arabi, anche grazie all’opera di gruppi di collegamento, come il serbo Otpor e soprattutto la Academy of Change, con base in Qatar. H. Pickett, Dual Uprisings Show Potent New Threats to Arab States, in “The New York Times”, 13 febbraio 2011.
[25] M. L. King III, Meetings with Palestinian Advocates of Nonviolent Resistance, 20 febbraio 2010.
[26] E. Bronner, Palestinians Try a Less Violent Path to Resistance, in “The New York Times”, 6 aprile 2010.
[27] Reuters, What are the Chances of a Third Palestinian Intifada?, in “Haaretz”, 4 ottobre 2009, dichiarazione di Zakaria al-Qaq, Al Quds University, Gerusalemme.
[28] M. Dumper, One State or Two?, in “Guardian” 31 marzo 2008.
[29] N. Kristof, Waiting for Gandhi, in “The New York Times”, 9 luglio 2010. L’autore cita Moustafa Barghouti.
[30] L’episodio più recente e più sconvolgente fu lo sciopero della fame di detenuti irlandesi nella prigione di Maze, sotto il governo Thatcher.
[31] A. Pfeffer, IDF has no way of stopping mass non-violent protest in West Bank, in “Haaretz”, 29 giugno 2011.
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