(Italian) Willy Brandt 20 Anni Dopo
ORIGINAL LANGUAGES, 16 Jul 2012
Johan Galtung – TRANSCEND Media Service
È morto vent’anni fa, il grande statista tedesco. La Germania, l’Europa e il mondo hanno ampi motivi di riconoscenza e molto da imparare da questo maestro di politica in condizioni di gran tensione e polarizzazione.
Che cos’era la sua formula di Ostpolitik – una nuova politica verso l’Est?
La de-escalation, la riduzione della tensione sono aspetti importanti, ma troppo generali. Egli riuscì a presentare all’Est, non solo alla DDR ma alla Polonia, alla Cecoslovacchia e all’Unione Sovietica, una Germania occidentale amichevole, non satura d’aggressività e rancore; un membro della NATO, ma con un viso umano. Non c’era dubbio sulla sua posizione sulle dittature contro la volontà dei popoli, eppure riuscì a mettersi direttamente in relazione con i tedeschi dell’est, i polacchi, i cechi e i russi. Chi visitava assiduamente tali paesi poteva usare Brandt come prova che l’Occidente non era poi così cattivo e minaccioso, che gli puntava contro missili a testata nucleare. Il suo predecessore, Kiesinger, un vecchio nazista, mandava effettivamente segnali del genere. E alla fine fu Willy Brandt, non Helmut Kohl, a dire le parole giuste: non il trionfalismo dell’“abbiamo vinto”, ma “ora cresce assieme quello che ha reali affinità”.
Brandt rese più facile alla Germania dell’Est la resa a quella Ovest quando i tempi furono maturi, l’accettazione dell’articolo 23 della Germania Federale che concepiva l’Est come parte dell’Ovest. Rese ragionevole la DDR (Deutsche Demokratische Republik) essendo ragionevole egli stesso. Brandt rese possibile il [passo di] Kohl del 1989.
E facilitò all’Est ammettere, almeno con se stesso, le proprie atrocità, facendo lo stesso per la Germania. Lo statista, in ginocchio (Kniefall), al memoriale del ghetto di Varsavia sulla resistenza ebraica nei tardi anni 1970. Nessuna parola superflua – peraltro insufficiente per l’enormità del genocidio a danno degli ebrei – bensì un atto di sottomissione al fardello di colpa tedesco, e profonda solidarietà con le vittime. E un segnale, si potrebbe aggiungere, ai sovietici le cui truppe, pur vicine, l’avevano lasciato accadere non venendo in soccorso.
Molti furono i tedeschi scacciati dall’Est, i Heimat-Vetriebenen, e il loro odio per gli autori dietro quella pulizia etnica fu trasferito su Brandt. Che fu accusato d’alto tradimento. Fraintesero la sua buona disposizione verso quelle genti per un sì ai regimi. Ricadendo nella trappola primitiva del “l’amico del mio nemico è nemico pure lui”, così lontana dall’ambiguità e sottigliezza delle cose umane. Anch’essi hanno buoni motivi di riconoscenza.
Brandt stesso aveva vissuto una vita d’ambiguità. Nacque come Herbert Ernst Karl Frahm a Lubecca nel 1913 e crebbe in condizioni modeste – successivamente riflesse nel suo enorme lavoro per migliorare la previdenza sociale tedesca fino ai particolari più minuti. Entrò nella Gioventù Socialista e nel Partito Socialista dei lavoratori, a sinistra del SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands – Partito Socialdemocratico di Germania), di cui divenne presidente in seguito per 23 anni.
Nel 1933 sfuggì alla persecuzione nazista sotto il nome assunto di Willy Brandt. La Norvegia divenne il suo secondo paese, di cui acquisì la cittadinanza nel 1940 (gli era stata revocata quella tedesca); e dovette poi fuggire di nuovo dalla Norvegia occupata dai tedeschi durante la guerra, in Svezia. Parlava perfettamente norvegese e svedese. Noi norvegesi eravamo un po’ preoccupati per quel suo versante svedese, ma egli ci consolò dicendo una volta a Goteborg che sognava in norvegese. Carlota Frahm era la migliore amica di mia sorella, il nome di Willy era un nome di casa. Sono molti i norvegesi con storie simili da raccontare a proposito del “nostro Willy”, sempre con affetto e rispetto.
Ebbi il privilegio d’incontrarlo varie volte, conversando in norvegese – lui con un inconfondibile accento laburista, io con accento piuttosto borghese. Rispondeva, quando stuzzicato da un giornale conservatore tedesco per non avere un programma genuinamente socialista, non secondo la reine Lehre – la pura dottrina: “I miei anni in Norvegia e in Svezia mi hanno curato da quella”. Dritto alla mente, non solo al cuore, degli scandinavi.
Così fu accusato di essere anti-tedesco. Ripetutamente.
Contro quale Germania fosse quando venne arrestato nel 1940, in divisa norvegese, dalle truppe d’invasione tedesche che vi s’insediarono per 5 anni, era ben chiaro. Solo dei fondamentalisti alquanto autoritari con qualcosa da nascondere, possono abbracciare, o respingere, al 100% fenomeni complessi come le nazioni e gli stati. Come la dirigenza DDR che accusava tutti i critici del loro regime di “socialismo effettivamente esistente” d’essere anti-socialisti.
Peggio che il Berufsverbot – divieto di professione – cioè il rifiuto di posti d’insegnamento a chi fosse accusato di comunismo, ciò va dritto al cuore della democrazia, che riguarda tra l’altro proprio il mettersi in discussione. Peggio che il Redeverbot – divieto di pronunciare l’impronunciabile – questo “anti-tedesco” era prossimo al Denkverbot – divieto di pensare l’impensabile.
Willy esternava la sua mente, e sovente; e c’era controversia attorno a lui, sia astio sia una nutrita schiera di seguaci affezionati.
Gli fu conferito il Premio Nobel per la Pace nel 1971 per le sue strette di mano pacificatrici con l’Est. Secondo la tradizione di questo premio occidentale, conferito solo a lui, non, per dire, a Brezhnev giacché bisogna essere in due per darsi la mano. Ma tale premio fa spesso il rumore di una sola mano che applaude.
Il suo pensiero di pace superò ampiamente tali angusti limiti:
“La globalizzazione dei rischi e delle sfide – guerra, caos, auto-distruzione – richiede un genere di ‘politica interna mondiale’ che s’estenda non solo aldilà del proprio campanile, ma anche ben oltre i confini nazionali” senza dubbio anche ispirata da un altro dei massimi esponenti tedeschi del periodo postbellico, Carl Friedrich von Weizsäcker. Tali idee erano anche riflesse nella sua SEF (Stiftung Entwicklung und Frieden) – Fondazione Sviluppo e Pace. Il Rapporto Brandt sullo sviluppo era più occidentale tradizionale, calato dall’alto, ma l’idea generale era una previdenza sociale diffusa su scala mondiale. Che rea il motto del grande svedese che egli conosceva certamente molto bene, Gunnar Myrdal.
“La pace non è tutto, ma senza la pace tutto è niente”, diceva Brandt. Quanto vero!
E Willy Brandt di tale idea è un monumento duraturo.
Note:
Questo colloquio è stato preparato per il simposio del 29-30 giugno 2012 di Erfurt, Thuringia in memoria di Willy Brandt, al quale mi è stato ritirato l’invito in quanto accusato di “antisemitismo”. L’accusa era basata su fraintendimenti riguardo al dibattito sul complesso disastro Breivik in Norvegia. Non incolpo nessuno per il ritiro dell’invito; hanno fatto il loro dovere, e io peraltro ero entrato in zone tabù, per capire e spiegare contribuendo a prevenire tali orrori in futuro. Tali zone tabù sono sì da biasimare, come antidemocratiche, che ci privano di lezioni del passato per approcci costruttivi per il futuro. I perdenti siamo tutti noi, la Germania, Israele e gli ebrei in particolare.
9 luglio 2012
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis.
Titolo originale: Willy Brandt Twenty Years Later – TRANSCEND Media Service-TMS
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