(Italiano) Dar retta al ‘grido accorato’ di Cornel West

ORIGINAL LANGUAGES, 26 Jun 2023

Richard Falk | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service

Di Gage Skidmore from Surprise, AZ, United States of America – Cornel West
CC BY-SA 2.0, Collegamento

– In una sorprendente, benvenuta, mossa sacrificale, il filosofo Cornel West ha espresso la sua intenzione di concorrere per la presidenza USA nel 2024. Di primo acchito, sembra una irresponsabile distrazione da un’elezione nazionale tremendamente seria da parte di uno che non è mai stato un politico e non ha speranze di diventare presidente. Candidandosi, ha ben poche prospettive di attrarre voti se non da un frammento alienato della cittadinanza.

Eppure, in un’elezione serrata come probabile, West da candidato terzo potrebbe ottenere abbastanza voti da aiutare la marcia a passo serrato di un candidato d’estrema destra neo-fascista come Trump o Ron DeSantis verso una vittoria disastrosa per gli USA e pericolosa per il mondo. Questo argomentando che poter usare il pulpito di una candidatura presidenziale da parte di West per un allarme sull’avvento del neofascismo possa contribuire a realizzare propri ciò che teme e detesta di più.

Ammesso che questa sia una seria considerazione da ponderare, cedervi comporta mantenere il silenzio di fronte a scelte profondamente difettose offerte all’elettorato. Precorrere una sfida presidenziale simbolica ha l’effetto di escludere dal dibattito nazionale su una leadership politica accettabile in USA preoccupazioni come il razzismo sistemico, il capitalismo predatorio, l’iper-militarismo, e la criminalità ecologica. Che, insieme a qualche altro tema chiave, hanno goduto a lungo il sostegno di entrambi i partiti politici maggiori, causando agitazione sociale in patria, distruzione all’estero, e sprecando bellamente opportunità di conseguire un disarmo, uno sviluppo ecologicamente sostenibile, ed equità rispetto ai premi e ai castighi economici.

Più concretamente, queste realtà soggiacenti costringono i votanti a scegliere fra una presidenza guerrafondaia Biden per altri quattro anni o dare una seconda chance all’apertamente neofascista Trump di manovrare il paese verso una prossima enclave autocratica per il ceto miliardario e le minoranze ultranazionaliste. Forse, se Gli USA non fossero il primo stato militarista globale nella storia mondiale, ma solo uno di media potenza fra molti altri, la scelta di Biden farebbe una differenza abbastanza positiva in termini di valori umanistici da rendere la candidatura diversiva dell’Occidente accantonabile come esempio di un’irresponsabile esibizione di narcisismo.

Ma non è questo il caso.   La reazione di Biden all’attacco russo all’Ucraina non è stata di quelle che cercano quanto prima una tregua e un compromesso diplomatico. Ha optato piuttosto per armamento e assistenza tali da sostenere una guerra protratta in Ucraina come dimostrazione del la rinascita della NATO a guida USA, a quanto pare non tanto motivata per la difesa dell’Ucraina ma per un incontenibile interesse ad umiliare Putin e sconfiggere la Russia. E non solo. Biden ha aggiunto un livello geopolitico di scontro alla devastante guerra sul terreno, con la speranza che l’inflizione di una sconfitta alla Russia induca la Cina a rinunciare ad ogni speranza di inglobare Taiwan.

Questa agenda mira soprattutto ad estendere il primato unipolare USA come elemento permanente del mondo post-GuerraFredda, effettivamente una Dottrina Monroe per il mondo. Tale condotta provocatoria è stata intrapresa alla faccia del rischio di confronto nucleare e di un’altra probabile ‘guerra perpetua’, arrecando senza dubbio sofferenze protratte e relativa devastazione al popolo ucraino. Sullo sfondo di tale comportamento c’è un evidente atteggiamento sdegnoso circa l’instaurarsi di una nuova guerra fredda, peraltro già in corso nei termini di una gara agli armamenti costosa e rischiosa, di un atteggiamento non cooperativo verso la soluzione dei problemi inerenti a una serie di sfide globali non trattabili con successo su base stato singolo vs stato singolo.

Soprattutto, lo stile d’internazionalismo partigiano da GuerraFredda pare mettere in pericolo i popoli del mondo più ancora di quanto lo faccia la determinazione di Trump di ripudiare i sostegni della democrazia procedurale (rispetto dei risultati elettorali e un impegno a un pacifico trasferimento di poteri; un apparato giudiziario indipendente; e il governo della legge con la volontà e la capacità di assoggettarvi i ricchi e i potenti tanto quanto i deboli e i vulnerabili). Trump minaccia anche l’uguaglianza dei generi e i diritti riproduttivi delle donne, i diritti dei LGBT, e l’indipendenza dei media, e resta un esplicito patrocinatore della lobby armaiola e un apparente campione dell’attivismo delle milizie d’estrema destra e del suprematismo bianco. Complessivamente, davvero non un bel quadro, ma guardato da una prospettiva planetaria più lunga, staccata, meno dannoso alla specie di quanto offre Biden.

Il cosiddetto sistema bipartitico può sembrar creare una scelta significativa, ma è un’illusione promossa dal credere che tale dualità sui versanti distruttivi della politica pubblica sia riconciliabile con gli imperativi di pace, giustizia, e assennatezza ecologica in patria e nel resto del mondo. Cornel West si fa avanti per esporre la pericolosa fallacia in agguato sotto la credenza convenzionale che tali strutture tossiche siano aldilà dell’agone politico. Non è paranoide concludere che la democrazia in USA sia diventata più una faccenda procedurale che di sostanza. Quand’è stata l’ultima volta che un candidato presidenziale mainstream in USA ha proposto tagli al[bilancio del]la difesa, un’ONU più forte, di rivedere la valutazione dei rapporti speciali di sostegno incondizionato accordati a Israele e Arabia Saudita, o patrocinato l’abrogazione del Secondo Emendamento alla Costituzione USA che afferma il diritto di portare armi?

Ci sono stati in passato candidati terzi notevoli, particolarmente un magnate degli affari libertario preoccupato del debito pubblico, Ross Perot, un autentico razzista del Sud, George Wallace, e in modo più rilevante Ralph Nader, per il Partito Verde nel 2000. Questi candidati furono in grado di trasmettere messaggi dissidenti, ma furono attaccati come guastafeste, ossia finti candidati che dirottavano voti dai veri contendenti, distorcendo così i risultati elettorali ed erodendo il valore delle elezioni in quanto riflesso delle preferenze dei cittadini, e quindi del potere del popolo.

Supponiamo che quel tanto che basta dei nordamericani voti per Trump (o suo equivalente) da sconfiggere il suo avversario Democratico: una gran rabbia si scaricherebbe su West, come avvenne nel 2000 quando i 97.121 voti per Nader in Florida permisero a George W. Bush di aggiudicarsi quello stato per 537 voti, impedendo così la vittoria di Al Gore (dovuto alle peculiarità federaliste del sistema dei Collegi Elettorali USA di voto ponderale),

Con piena consapevolezza delle eventuali conseguenze avverse, non esito a sostenere il tentativo di Cornel West per la presidenza nel 2024, aspettandomi appieno ostilità e incomprensione dai miei amici liberal. West, fedele amico dai tempi in cui eravamo colleghi nel collegio docenti di Princeton dal 1988 al 1994, si è conquistato allora il mio affetto e rispetto per sempre. West è l’intellettuale pubblico più brillante del NordAmerica, un conferenziere affascinante impavido da decenni nel dire la verità al potere in una retorica affatto sovversiva. E la verità che dice combina eloquenza, passione e saggezza spirituale, nella tradizione di William Du Bois, Gandhi, Martin Luther King, contro la violenza e ogni forma di oppressione.

Come i suoi predecessori, West promette un assalto umanistico al capitalismo predatorio e alle forme post-coloniali di sfruttamento di lavoratori, migranti, reclusi, popoli indigeni, minoranze. Come dice lui, “Né l’uno né l’altro partito vuol dire la verità su Wall Street, sull’Ucraina, sul Pentagono, sulla big tech”. West esige protezione sociale per tutti in patria, una fine al militarismo geopolitico per il mondo, e un impegno pervasivo per la giustizia, l’internazionalismo, e soprattutto la fratellanza e sorellanza dell’umanità.

West, da molti anni impavida voce afroamericana di giustizia, con sottintesi cristiani e socialisti, è stato inizialmente noto per la sua descrizione del razzismo sistemico nel suo influente libro Race Matters (1992) seguito un decennio dopo da Democracy Matters. In modo rivelativo, West attaccò apertamente Barack Obama per il suo complice compromesso col militarismo e il capitalismo egemonico USA, deridendolo coloritamente come “un Repubblicano alla Rockefeller con faccia nera”. West sembra più prossimo nelle sue affinità a Noam Chomsky, Edward Said e Jean-Paul Sartre, intellettuali pubblici bianchi di primo piano, che dicevano quel che credevano qualunque ne fossero i costi personali. Ciascuno di essi patrocinava una politica trasformativa—‘un socialismo a venire’—piuttosto che una politica di fattibilità che accettava i mali del sistema.

Ammettiamo pure, fare una tale scelta di questi tempi non è facile, e come indicato me ne asterrei se gli Stati Uniti non fossero il più militarista, aggressivo, degli stati ad un tempo di massimo azzardo planetario multiplo, che minaccia la vivibilità dell’habitat naturale e rende plausibili riflessioni sulla probabile estinzione della specie umana. Noi negli USA in questo momento storico abbiamo disperato bisogno di dar retta alla testimonianza di Cornel West se diamo valore a ciò che vuol dire essere un cittadino impegnato, non solo di questo o quel paese ma del mondo, nel terzo decennio del 21° secolo. Vuol dire soprattutto imbarcarsi in un viaggio spazio-temporale verso un futuro di spiritualità accentuata, radicalmente differente per l’umanità e il suo habitat naturale.

Se ciò possa comportarci di sopportate Trump anziché tollerare Biden, è – d’accordo – un caro prezzo da pagare per molti, ma concepito più ampiamente, ne sembra valere la pena.

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Richard Falk è membro della Rete TRANSCEND, studioso di relazioni internazionali, professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University,autore, co-autore o redattore di 60 libri, e conferenziere e attivista in affair mondiali. Nel 2008, the United Nations Human Rights Council (UNHRC) ha nominato Falk per sei anni United Nations Special Rapporteur su “la situazione dei diritti umani nei territori Palestinesi occupati dal 1967”. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California, e insegna al campus locale di Studi Globali e Internazionali dell’University of California, e dal 2005 presiede il consiglio d’amministrazione della Nuclear Age Peace Foundation. I suoi libri più recenti sono: On Nuclear Weapons, Denuclearization, Demilitarization, and Disarmament (2019); ed Public Intellectual-The Life of a Citizen Pilgrim (memoirs-autobiography) (Clarity Press) Feb 2021.

Original in English: Heeding Cornel West’s ‘Cri de Coeur’ TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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