(Italiano) Come finiscono le guerre?
ORIGINAL LANGUAGES, 27 Nov 2023
Johan Galtung | Centro Studi Sereno Regis –TRANSCEND Media Service
“C’erano stati solo circa 400 ribelli nel combattimento al ponte, ma coll’avanzare della giornata aumentarono a varie migliaia. Sparavano sulla Colonna nemica da dietro steccati, alberi, granai, muri, da dentro le case, poi ricaricavano, avanzavano in fretta e sparavano di nuovo. Uno strano tipo nuovo di guerreggiare per i britannici senza esperienza né addestramento in merito. A loro pareva disonorevole, nascondersi e sparare a uomini allo scoperto che non potevano neppure vedere i propri nemici. Come scrisse una Giubba Rossa alla famiglia: Non ci combattevano da esercito regolare, solo come selvaggi”. [i]
– Suona familiare, oggi. Come del resto la Rivoluzione Americana, la guerra d’indipendenza che iniziò il 19 aprile 1775, sulla strada Boston-Lexington-Concord in Massachusetts.I selvaggi vinsero. 235 anni dopo stanno coi britannici contro i “selvaggi” in Iraq, in Afghanistan e contro il terrore. la vittoria è pronosticata? No, il futuro non ha in serbo solo vittoria e sconfitta per queste tre guerre.
Possiamo fare ricerche sull’origine dell’organizzazione bellica in Grecia, come raccontato dal citatissimo Tucidide o il più negletto Xenofonte. O nei tornei feudali, uomini corazzati con lance e a cavallo a disarcionarsi e in definitive uccidersi l’un l’altro, con arbitri, più tardi cerimonieri di campo che aggiudicavano la vittoria e la resa dello sconfitto. Lo sport si volse in guerra , con inizio e fine.
E questo fu trasposto nella modernità e nel sistema statuale della “Pace” di Westfalia del 24 ottobre 1648 per dichiarazione e tanto di capitolato, classificando la guerra come una successione di battaglie. Il diritto d’uccidere era condizionato al dovere di rischiare di essere uccisi, con onore e coraggio e l’onore estremo al più coraggioso di essere un eroe.
Il diciannovesimo secolo ha visto l’erodersi della cavalleria e dello sport in guerra totale, “fino al limite estremo”, “continuazione della politica con tutti i mezzi necessari” (Clausewitz, anche più brutale del francese Jomini nello staff di Napoleone e dell’americano Dennis Hart Mahan). Non ristretta al campo di battaglia: mobilità, colpire le line d’approvvigionamento, attacchi massicci a una parte dopo l’altra per la totale distruzione delle forze nemiche, e la violenza come forza demoralizzatrice, attaccando donne, bambini, vecchi.
Storicamente percepiamo tre conseguenze, non esclusive:
- Prima, essendo l’apparato militare così brutale ed efficiente, perché non usare invece il terrorismo (di stato) per combatter i civili, non in grado di ribattere?
- Seconda, guerriglia, di civili come quel 19 aprile 1775, pionieri rispetto agli spagnoli contro Napoleone il 2 maggio 1808, il VietNam contro gli USA e l’Afghanistan contro i sovietici: vincendo nessuna battaglia aperta ma la guerra.
- Terza, nonviolenza, come inventata da Gandhi, l’eroico guerriero nonviolento, che ha posto fine al colonialismo e alla guerra fredda, forse ispirata alla brutalità della vendetta britannica per l’ammutinamento dei sepoy; non notata da Obama nel suo bellicoso discorso sulla guerra giusta alla cerimonia per il Nobel nel 2009.
Clausewitz preparò la propria disfatta, ed effettivamente la sentì arrivare.[ii] La predizione è che l’Occidente non sconfiggerà mai questa tripletta, o un Islam che non capitolerà mai agli infedeli, forte del quintuplo degli americani. Ma il nostro cervello rettiliano ha un’alternativa a combattere: fuggire. L’esito in Vietnam: rendersi indisponibili alla sconfitta ultimativa.
Non sono più i giorni in cui potere era diritto e la resa incondizionata è stata la fine di una catena ininterrotta di 141 anni di guerre USA, dal 1812 – la battaglia finale della guerra d’Indipendenza – al 1953, l’armistizio della guerra di Corea. E non sono più i giorni in cui il potere era segno di un mandato divino, Dio è indietro. Fra i cristiani può darsi che Dio favorisca il più potente, Fra i musulmani, forse. Ma certo non oltre quello spartiacque.
Sono andati anche i giorni dell’eroismo diretto in battaglia. Seduti a un computer al Pentagono a dirigere droni, o in una carlinga d’aereo a oltre 13mila metri d’altezza a colpire “coordinate”, a favore della pura vigliaccheria.
O piuttosto: i rischi cambiano con la guerra. Quando sono più i suicidati che gli uccisi in campo, la realtà è cambiata.
Di fronte a una scelta fra una vittoria molto elusiva, la sconfitta, e la sconfitta, la risoluzione del conflitto potrebbe crescere in attrattiva. La questione è che cosa ci vuole. Potrebbe essere altrettanto elusiva.
Gradualmente il discorso dominante costi-benefici di guerra, così naturale in un paese capitalista-militarista come gli USA, con i favorevoli che concludono che valga ben i costi e i contrari che non ne valga i benefici deve cedere il passo a un discorso di risoluzione del conflitto riguardo ai veri temi. Ma può risultare anch’esso elusivo, date due premesse basilari.
L’intro incontro dv’essere visto dall’alto, tutti i contendenti, i loro obiettivi, valori, gli interessi, e i punti ove collidono, le incompatibilità. Il percorso passa per la comprensione; delle mire degli altri e le proprie. Di solito ci sono obiettivi legittimi da rispettarsi su ogni versante.
E poi la risoluzione: né per, né contro sé stessi, idealmente qualcosa di nuovo che fa spazio adeguato a tutti, accettabile e sostenibile. con minacce, né con bustarelle; bensì col peso di una visione convincente sostenuta da un incubo convincente se si ascia tutto irrisolto.
Razionalità, buon senso; che sono però sovente merce rara. E non lo si può fare da parte di un solo contendente, bensì da tutti in concertazione, preferibilmente col dialogo, sotto la guida di un’ autorità imparziale, magari una conferenza ONU specifica.
Per degli USA adusi a dettare composizioni dopo una vittoria, si tratta davvero di un bel salto. E per giunta con la riluttanza, forse l’incapacità.
Che succede allora? Con né vittoria, né sconfitta, né fuga, né risoluzione accettabile? Insisterci, si capisce, cercare di guadagnar tempo. Con soldi per le forze armate e per gli appalti, ancora per un po’. Eventuali promozioni, pensioni più alte; e altro del genere.
E che cosa, intendo: (per) adesso, che cosa? Nessuna delle situazioni suddette, ma una quinta: il rendersi irrilevanti degli USA. Altri – Turchia? Iran? Cina? Russia? – abbozzeranno una risoluzione al conflitto. E gli USA si ritireranno, modus Vietnam, magari da tutt’e tre le guerre. Nella Fine dell’ Affare.
Note:
[i]. Joseph P. Cullen, History of the American Revolution, Harrisburg PA: The National Historical society, 1972.
[ii]. Dale O. Smith, U.S. Military Doctrine, New York NY: Little, Brown and Company, 1955, p. 54.
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Johan Galtung, professore di studi sulla pace, Dr. hc mult, è il fondatore della Rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e rettore della TRANSCEND Peace University-TPU. Prof. Galtung ha pubblicato 1.670 articoli e capitoli di libri, più di 500 editoriali per TRANSCEND Media Service-TMS, e 167 libri su temi della pace e correlate, di cui 41 sono stati tradotti in 35 lingue, per un totale di 135 traduzioni di libri, tra cui 50 Years-100 Peace and Conflict Perspectives, ‘pubblicati dalla TRANSCEND University Press-TUP.
Original in English: How Do Wars End? – TRANSCEND Media Service
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
Go to Original – serenoregis.org
Tags: Conflict Analysis, War Economy, Warfare
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