(Italiano) Conflitti armati e catastrofe climatica
ORIGINAL LANGUAGES, 5 Feb 2024
Elena Camino | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service
Due pubblicazioni recenti documentano – o almeno cercano, in parte, di farlo – i danni ambientali provocati da due conflitti armati che in questo periodo richiamano più di altri l’attenzione pubblica.
Uno degli articoli, pubblicato dal giornale ‘The Guardian’, riguarda l’area di Gaza, in Palestina: il titolo è Emissions from Israel’s war in Gaza have ‘immense’ effect on climate catastrophe (Le emissioni prodotte dalla guerra di Israele a Gaza hanno un effetto immenso sulla catastrofe climatica) e fornisce alcune misure sulle emissioni di gas con effetto serra (in particolare la CO2) prodotte nella preparazione e realizzazione degli attacchi armati compiuti da Israele nel corso di due mesi.
L’altro articolo è frutto di una serie di ricerche svolte dall’Osservatorio su Conflitti e Ambiente (CEOBS), e si intitola A war in nature, and a war on nature (Una guerra in natura, e una guerra sulla natura), e fa parte di una serie di approfondimenti tematici (finanziati dal Programma ambientale delle Nazioni Unite) sulle conseguenze ambientali dell’invasione russa all’Ucraina.
L’impronta militare della guerra a Gaza
L’autrice del primo articolo, Nina Lakhani, sintetizza così la situazione: “i primi mesi di conflitto hanno prodotto una quantità di gas con effetto serra maggiore di quella prodotta in un anno dai 20 Paesi più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico”. Più del 99% della CO2 prodotta nei primi due mesi dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 (281.000 t di CO2 equivalente), secondo misure preliminari svolte da ricercatori USA e UK, viene attribuita ai bombardamenti e all’invasione a terra da parte di Israele.
L’analisi comprende la CO2 emessa dalle missioni degli aerei e dal carburante di altri veicoli, nonché dalle emissioni generate dalla fabbricazione e dall’esplosione di bombe, artiglieria e razzi. Metà delle emissioni di CO2 è stata prodotta dagli aerei-cargo che dagli USA portavano rifornimenti militari a Israele. I razzi sparati da Hamas nello stesso periodo hanno generato 713 tonnellate di CO2, rendendo evidente l’asimmetria tra i due apparati militari.
Ciò avviene nel contesto di crescenti richieste di maggiore assunzioni di responsabilità riguardo alle emissioni di gas serra da parte delle forze armate, che svolgono un ruolo enorme nella crisi climatica, ma sono in gran parte tenute segrete e non sono finora prese in considerazione nei negoziati annuali delle Nazioni Unite sull’azione per il clima.
Al di là della tragica conta delle vittime umane, e delle enormi sofferenze causate dal conflitto in atto, della distruzione dei territori destinati all’alimentazione quotidiana, non bisogna dimenticare il contributo del conflitto all’emergenza climatica: oltre alla produzione attuale di Co2 , lo scenario futuro prevede la ricostruzione di almeno 100.000 edifici distrutti nella guerra, che con le tecniche attuali provocherà l’emissione di 30.000 t di gas serra, pari alle emissioni totali annuali della Nuova Zelanda, e maggiori di quelle prodotte da altri 135 paesi e territori, inclusi Sri Lanka, Libano e Uruguay. Le trasformazioni in atto sul nostro pianeta stanno ormai causando sofferenze e morti su scale spaziali e temporali ormai più estese dei singoli conflitti armati…
I militari e il cambiamento climatico
Lo studio sopra riportato è solo un’istantanea dell’impronta militare della guerra… un quadro parziale delle massicce emissioni di carbonio e dei vari inquinanti tossici che rimarranno a lungo dopo la fine dei combattimenti. Altri studi suggeriscono che le emissioni climalteranti dei militari potrebbero risultare da 5 a 8 volte superiori, se si includessero le emissioni dell’intera catena di approvvigionamento bellico.
Secondo David Boyd, special rapporteur delle NU per i diritti umani e l’ambiente, “Questa ricerca contribuisce a far capire l’enorme peso delle emissioni militari – dalla preparazione, allo svolgimento, alla ricostruzione. I conflitti armati spingono sempre più l’umanità verso il precipizio della catastrofe ambientale.”
Uno studio recente del CEOBS segnala che quasi il 5.5% delle emissioni annuali di gas-serra nel mondo sono da attribuire al comparto militare, in quarta posizione nel mondo dopo tre Paesi: USA, Cina e India.
In guerra nella natura e contro la natura
L’Osservatorio internazionale su Conflitti e Ambiente (già sopra citato) dall’inizio della guerra tra Ucraina e Russia ha pubblicato diversi rapporti sui danni ambientali causati dalla guerra in varie aree del territorio ucraino. Il più recente, il settimo, riguarda il Parco Naturale Nazionale di Dzharylhach, del quale è possibile vedere qui un breve video
Gli altri rapporti della serie sono disponibili ai seguenti link: 1. Nuclear sites; 2. Water; 3. Industry; 4. Fossil fuel facilities; 5. The coastal and marine environment; 6. The climate crisis.
L’Ucraina occupa meno del 6% del territorio europeo, ma a causa della sua importanza per le specie migratorie e la diversità geografica, possiede il 35% della sua biodiversità. Ciò equivale a più di 70.000 specie, comprese molte rare, o endemiche. La portata e l’intensità del conflitto in Ucraina hanno provocato danni diffusi e localmente gravi ad alcune delle aree più importanti dal punto di vista ecologico, mentre molte altre rimangono occupate da postazioni militari. Il conflitto sta incidendo sulla biodiversità dell’Ucraina in modo diretto e indiretto: dai bombardamenti aerei alla collocazione di mine terrestri, che creano rischi che dureranno decenni.
L’Ucraina ha 50 zone umide di importanza internazionale e otto riserve della biosfera dell’UNESCO. I ricercatori hanno identificato 142 aree chiave per la biodiversità. Ci sono anche aree transfrontaliere di importanza ecologica che attraversano i confini dell’Ucraina, compreso il delta del Danubio, il bacino del Dneister, e i Carpazi. A livello nazionale, circa 2.000 aree protette sono state temporaneamente occupate o sono rimaste occupate alla fine del 2023. Ciò riflette la portata geografica del conflitto armato, e in particolare le sue lunghe linee del fronte. Trattandosi di un conflitto ad alta intensità, che ha visto l’uso intensivo della forza esplosiva, i danni ai paesaggi e agli habitat sono stati diffusi e localmente intensi. Gli ecosistemi steppici dell’Ucraina nel sud e nell’est hanno sopportato il peso maggiore dei danni, mettendo a rischio le loro specie animali e vegetali.
La crisi climatica
Il conflitto armato che ormai dura da due anni ha causato non solo danni locali, ma ha contribuito a un importante aumento della produzione di gas climalteranti, con effetti che vanno ben al di là dei confini nazionali. Non esiste ancora una metodologia consolidata per calcolare le emissioni in tempo di guerra, né vi è consenso su come dovrebbero essere condivise e comunicate. A livello nazionale, i fattori che influenzano le emissioni dei conflitti includono quelli generati direttamente dall’attività militare (compresi i combustibili per gli spostamenti terrestri, marini e aeronautici) cui si aggiungono gli incendi urbani e nelle campagne, e gli incendi causati da infrastrutture energetiche danneggiate.
Anche i cambiamenti nella produzione di energia possono influenzare le emissioni, sia attraverso il maggiore utilizzo di generatori domestici, sia attraverso cambiamenti nei tipi di carburante utilizzati. È necessario anche considerare le dinamiche di spostamento interno degli abitanti, così come gli effetti negativi della riduzione dell’attività industriale o economica in alcuni settori. Si prevede che una delle maggiori fonti di emissioni per l’Ucraina saranno le emissioni di carbonio nella fase della ricostruzione.
Danni globali e locali: inseparabili e difficilmente misurabili
Istituzioni incaricate di monitorare gli incendi hanno rilevato circa 20.000 incendi nel territorio Ucraino nel 2022, con un’area bruciata totale di circa 750.000 ettari. I terreni agricoli rappresentavano il 55% di quest’area, con il 36% di altra vegetazione naturale; le foreste costituivano il 7,5%. Più di due terzi di tutti gli incendi e più dell’80% di tutti gli incendi boschivi si sono verificati all’interno della fascia di 60 km lungo la linea del fronte. Si stima che le foreste ucraine in condizioni normali fossero in grado di immagazzinare 50 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti all’anno.
La perdita della capacità di cattura e stoccaggio del carbonio dovuta agli incendi boschivi attribuibili alla guerra è di circa 100.000 tonnellate di CO2 equivalenti all’anno. Gli attacchi al gasdotto Nord Stream hanno rilasciato grandi quantità di metano, il cui contributo alla crisi climatica è stato maggiore che se fosse stato utilizzato, rilasciando CO2. I consumi dell’aviazione civile interna si sono ridotti durante la guerra, così come molte attività produttive, ma si sono allungate le rotte, che hanno utilizzato molti aeroporti dell’area asiatica, con corrispondente aumento dei consumi di carburante. Sono aumentate le esercitazioni militari dei paesi limitrofi. La distruzione di impianti di produzione di energie rinnovabili (dighe, impianti eolici e solari) ha ridotto le capacità del paese di proseguire nei progetti di conversione energetica.
Una sola conclusione
Neta Crawford, attualmente professoressa di relazioni internazionali a Oxford, ha progettato e realizzato, con altri colleghi, un progetto di ricerca pluriennale dal titolo The costs of war.
Creato nel 2010 e ospitato presso il Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University (USA), il progetto Costs of War si basa sul lavoro di oltre 60 studiosi, esperti, difensori dei diritti umani e medici di tutto il mondo. La finalità della ricerca era aumentare la consapevolezza delle istituzioni e del pubblico, e promuovere la discussione fornendo il resoconto più completo possibile dei costi umani, economici, politici e ambientali del militarismo statunitense, ponendo le basi per politiche estere e interne degli Stati Uniti meglio informate. Alcuni degli obiettivi dichiarati dallo staff erano:
- Tener conto dei costi delle guerre in vite umane e delle conseguenze sulla salute pubblica e sul benessere immediato e a lungo termine, sia negli Stati Uniti che nelle zone di guerra
- Descrivere la portata dell’impronta militare globale degli Stati Uniti e il suo impatto politico e sociale negli Stati Uniti e nel mondo
- Esaminare l’impatto ambientale ed ecologico della presenza militare globale degli Stati Uniti, comprese le emissioni militari di carbonio
- Valutare strategie alternative a quelle attuali, in grado di fornire sicurezza umana significativa, giusta e inclusiva.
Neta Crawford ha pubblicato nel 2022 un libro, dal titolo The Pentagon, Climate Change and War: Charting the Rise and Fall of Military Emissions (MIT Press), in cui riassume i risultati della lunga e approfondita ricerca svolta con il progetto ‘Cost of war’, e dimostra, dati alla mano, che il Pentagono è il più grande produttore istituzionale di emissioni al mondo. Sostiene inoltre che – se si vuole passare dai combustibili fossili alle rinnovabili – è necessario un approccio diverso alla sicurezza nazionale.
In un post pubblicato ad aprile 2023 la Crawford afferma: “In risposta all’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, gli Stati Uniti hanno aumentato la spesa militare, la NATO si è espansa e l’Occidente ha intrapreso un rafforzamento militare. Sebbene l’invasione della Russia sia stata provocatoria e ingiustificata, molti di questi passi non sono necessari e alcuni sono addirittura imprudenti.”
Al di là delle responsabilità dei singoli stati e coalizioni, cosa si può fare per prevenire la guerra? Questa è la domanda che ha spinto Neta Crawford e i suoi colleghi a intraprendere questa impegnativa e approfondita ricerca. La risposta, secondo lei, sta nell’impegno che le persone – in ogni parte del pianeta – devono dedicare per respingere il conflitto armato come un modo accettabile per risolvere le controversie.
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Elena Camino è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e Gruppo ASSEFA Torino.
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Tags: Carbon footprint, Israel, Palestine, Russia, Ukraine
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