(Italiano) La violenza strutturale riesaminata
ORIGINAL LANGUAGES, 28 Jul 2014
Johan Galtung – TRANSCEND Media Service
Il saggio “Galtung’s Structural Violence and the Sierra Leone Civil War c. 1985-1992″ Philip Leech pubblicato nella newsletter di TRANSCEND del 14 luglio 2014 tra tutti i commenti il più profondo, è un’ottima opportunità per chiarire e sviluppare ulteriormente alcune delle premesse teoriche. In gran parte le sue osservazioni, che si basano su “Pace con mezzi pacifici” (Esperia, Milano 2000; per uno sviluppo ulteriore, si veda A Theory of Peace, Transcend University Press) sono molto positive. Mi soffermerò sui punti controversi e critici, non sulla Sierra Leone, di cui non ho esperienza diretta come mediatore. Leech conosce bene questo conflitto.
Leech afferma più volte qualcosa su cui sono pienamente d’accordo: “Nessun concetto teorico può raccontare l’intera storia”. Infatti, come potrebbe un insieme di poche parole descrivere la complessità della realtà in continuo cambiamento? Una netta definizione – da Marx (mezzi verso modi) o da Toynbee (sfida verso risposta)- può rivelare qualche aspetto profondo ma mai “l’intera storia” che, inoltre, è continuamente riveduta, con nuove definizioni.
Nel mio sforzo verso niente meno che l’emergere di una nuova cultura del conflitto -diagnosi, prognosi, terapia- violenza, pace e violenza strutturale sono solo alcune componenti. La violenza culturale -non intesa come violenza diretta o strutturale tra gruppi di diversa cultura ma come cultura usata per giustificare e legittimare le altre forme di violenza, è un’altra componente. Altre ancora sono cultura profonda, struttura profonda, natura profonda (un prossimo libro) che si focalizzano su culture, strutture e natura. Non ne siamo consapevoli per mancanza di conoscenza, perché le diamo per scontate, o perché le reprimiamo, preferendo non esserne consapevoli – come per la discriminazione degli anziani, di genere, basata sul dualismo.
E poi la distinzione tra pace negativa e pace positiva, che ho proposto nel 1958. Ci sarebbe molto altro. Certamente, né singolarmente, né combinati tra loro questi concetti rappresenterebbero “l’intera storia”. Ma possono servire per focalizzare la nostra attenzione.
La violenza strutturale è violenza in se stessa – non è né causa necessaria né sufficiente di violenza diretta – non provocata da atti di commissione intenzionali, ma da continui atti di omissione. Più insidiosa.
E assume molte forme, oltre la gerarchia verticale. C’è anche l’anarchia, con la solitudine che costituisce un’offesa al bisogno umano di solidarietà attraverso l’interazione. E c’è la poliarchia, troppa interazione, sia verticale sia orizzontale, che colpisce il bisogno di un po’ di solitudine. Anche l’interazione soltanto orizzontale, equilibrata, nota come “equiarchia”, può essere violenta limitando l’interazione a piccoli gruppi. Vi sono problemi ovunque, conflitti all’interno e all’esterno; nessuna soluzione perfetta.
Leech dice che “la violenza strutturale è un’etichetta evidente che può essere applicata a una vasta gamma di fenomeni” -d’accordo!- e subito dopo aggiunge: “la natura della violenza strutturale è in qualche modo vaga perché comprende aspetti qualitativi e quantitativi dell’aggressione e del dominio molto variabili”. Non sono d’accordo. La violenza strutturale, come il colonialismo, può mantenere automaticamente alcune persone “al loro posto”. Vi sono forti interessi -bisogni strutturalmente condizionati- dietro agli sforzi di cambiare o di preservare la struttura, rivoluzioni e controrivoluzioni. Ovviamente, gli sforzi sono “variabili”; dipendono dalle risorse disponibili.
Individuo 5 risorse fondamentali -Leech le mescola un po’- consapevolezza per superare penetrazione e segmentazione; organizzazione per superare frammentazione e marginalizzazione; scontro seguito dalla lotta con mezzi pacifici, nonviolenti, comnpresa la separazione (delinking) per sottrarsi alla violenza strutturale verticale, e infine (maggiore) ricongiungimento (relinking) orizzontale. In tutto ciò c’è molta generalizzazione di Marx con l’aggiunta di Gandhi. Cerco di lanciare questi concetti e queste idee che potrebbero innescare processi di cambiamento nonviolenti.
“La maggior critica al lavoro di Galtung è che l’approccio teorico che egli delinea è troppo generalizzato”, dice Leech, giustamente. Questo è uno schema intellettuale per pensare, un discorso per parlare. È necessario che si traduca in politica e azione concreta per conflitti specifici e il libro 50 Years, 100 Peace & Conflict Perspectives (TRANSCEND University Press, 2008) ha a che fare con questo. Inoltre, 100 visioni più ragionevolmente concrete sono state pubblicate come editoriali di TMS (Transcend Media Service, tradotti nella newsletter del Centro Studi Sereno Regis, NdT), che verranno raccolti in un altro prossimo libro.
Secondo la mia esperienza, gli intellettuali sono normalmente più interessati ai concetti che alle politiche concrete, mentre per i politici vale il contrario. Per la pace negativa l’obiettivo politico è relativamente chiaro: la fine della violenza diretta (come nel cessate il fuoco), la fine della violenza strutturale (come nell’isolamento reciproco) e la fine della violenza culturale (come avviene quando si sottoscrivono i diritti umani). Ma Leech giustamente mi rimprovera di essere vago sulla pace positiva. Ne sono spiacevolmente consapevole, e la formula contenuta nel libro A Theory of Peace è un tentativo in tal senso. Essa si basa strutturalmente sulla cooperazione per un beneficio equo e reciproco, culturalmente sull’empatia attraverso le linee di faglia per l’armonia e la risonanza emotiva, e sulle contraddizioni per la conciliazione dei traumi e la soluzione dei conflitti. Tutti e quattro i punti sono obiettivi non piccoli, ma fattibili; come quello di rendere genitori e figli uguali.
Disarmo? Leech pone questa domanda, conoscendo la mia risposta: in assenza di conflitti profondi, le parti possono coesistere pacificamente anche con grandi quantità di armi; quando i quattro fattori della pace positiva non sono presi seriamente in considerazione, si possono rimuovere le armi, ma le parti in conflitto le produrranno e le contrabbanderanno di nascosto, usando un cessate il fuoco. Ma la facilità di accesso alle armi può essere un fattore importante, anche se non la causa ultima.
Cosa dire a proposito del potere coercitivo dello stato? Leech se lo chiede, sono d’accordo ma bisogna essere cauti. I mediatori possono trovare modi per risolvere i conflitti su obiettivi legittimi, ma vi sono parti con obiettivi illegittimi, violenti. Perseguirli, ottenerli, quando sono contrari alla legge, è criminale. Per scoprirli abbiamo la polizia, per giudicarli avvocati e tribunali, per gli individui e per la prevenzione e la pena. Ne abbiamo bisogno, ma questi strumenti devono essere perfezionati. Obiettivi come la speculazione su larga scala e la guerra di aggressione, che violano i bisogni fondamentali di milioni di persone, distruggendone anche la vita, devono ancora essere criminalizzati. L’ipotesi di una prevenzione individuale e generale può non essere valida empiricamente. Più pace positiva può funzionare meglio. La punizione è una violenza direttta, ma la somma di due violenze è pace?
La “violenza strutturale” si focalizza sui deficit nelle strutture, non sulle persone; la legge è orientata sulle persone. Abbiamo bisogno di entrambe. Grazie, Phil Leech.
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Traduzione a cura del Centro Studi Sereno Regis.
Titolo originale: Structural Violence Re-Explored – TRANSCEND Media Service.
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