(Italiano) La guerra che distrugge
ORIGINAL LANGUAGES, 14 Nov 2016
Elena Camino – Centro Studi Sereno Regis
4 novembre 2016 – Chieri, 27 ottobre 2016: Il Comitato Pace e Cooperazione Internazionale di Chieri (TO), in collaborazione con l’Associazione ‘Trame’, ha organizzato nel 2016 un ciclo di incontri sul tema “DIRITTO E CASTIGO. Richiedenti Asilo: dall’accoglienza alle… spese militari”.
Il 3° incontro, realizzato il 27 ottobre scorso, aveva come titolo “LA GUERRA CHE DISTRUGGE”, e in tale occasione gli organizzatori intendevano presentare al pubblico alcuni spunti su “Le cause che sono all’origine delle migrazioni, gli scenari di guerra, il costo, la vendita e l’uso degli armamenti”. A dialogare con il pubblico siamo state invitate Vanessa Maher(antropologa) per gli aspetti relativi ai flussi migratori, e io per la tematica delle spese militari e dei ‘costi’ che la militarizzazione porta con sé.
In occasione di questa serata ho preparato delle note scritte che qui riporto, sperando che siano utili sia a completare quanto ho detto a voce, sia a favorire la riflessione sulla vastità e pervasività con cui una visione e una mentalità ‘guerresca’ incidono sul vivere civile e sul ben-essere di persone, altri viventi, sistemi naturali.
SPESE COSTI DANNI
All’inizio di un Convegno Internazionale da poco concluso a Berlino sono state presentate alcune cifre:
Peace Bureau Institute – Congresso di Berlino 30 settembre 3 ottobre 2016
Programmi umanitari
- 60 milioni di persone dislocate
- 125 milioni in situazioni di crisi
- Gli attuali costi per aiuti umanitari: 25 miliardi di $ annui
- Fondi mancanti 15 miliardi di $
In una comunicazione del 5 Aprile 2016 il SIPRI (Stockolm International Peace Research Institute) informava che “la spesa militare nel 2015 è stata di 1,7 migliaia di miliardi di $, con un aumento dell’1% rispetto al 2014”.
Un po’ di conti: l’1% di 1.700 miliardi di $ = 17 miliardi di $ …
Dunque, mentre ovunque nel mondo scarseggiano i fondi per alleviare le sofferenze di milioni di persone che sono state costrette ad abbandonare le loro case, i campi, il lavoro, spesso la famiglia, i governi destinano alle spese militari una quantità di denaro enormemente più elevata.
Le informazioni sulle spese militari, in Italia e nel mondo, sono abbastanza facilmente accessibili: tra gli altri, in Italia l’Archivio Disarmo e a livello internazionale il SIPRI (Stockolm International Peace Research Institute) forniscono dati aggiornati sulla maggior parte dei Paesi. Tali spese, dopo un periodo di declino, sono attualmente in forte crescita, e sono oggetto di indignazione da parte di chi le mette a confronto con i mancati finanziamenti per la società civile (scuola, sanità, posti di lavoro).
Quanti soldi? Per fare che cosa? Con che esito? Queste sono le prime domande che vengono in mente quando ci si interroga sulle ‘spese militari’: ma mentre i dati numerici sono facili da rintracciare, meno facile è rispondere alle altre due domande.
Se poi spostiamo l’attenzione dalle SPESE ai COSTI, e dai costi ai DANNI, diventa impossibile fornire risposte numeriche: per quel che riguarda i costi, si può solo cercare di capire quali sono, e in che settori ricadono. Quanto ai danni, sono impossibili da quantificare: ma può essere un esercizio utile sforzarsi di coglierne la vastità e la portata.
David Wolfe, un ragazzo di Los Angeles, ha realizzato un video in cui mette a confronto le foto di Aleppo prima e dopo la guerra civile che ha devastato negli ultimi 5 anni la Siria. In brevissimo tempo il video ha realizzato più di 13 milioni di visualizzazioni.
Quanto è stato speso per provocare una simile catastrofe? Nelle foto di David emerge non solo il disastro umanitario, ma la devastazione del territorio, con COSTI enormi, e l’uccisione di un’antica civiltà: un DANNO irreparabile.
SPESE
Come accennato, il SIPRI (Stockolm International Peace Research Institute) è un istituto internazionale indipendente impegnato in ricerche su conflitto, armamenti, loro controllo e disarmo. Creato nel 1966, il SIPRI fornisce a politici, ricercatori, media e pubblico dati, analisi e raccomandazioni basate su fonti aperte.
Ogni anno viene fornita una traduzione sintetica in italiano dalla quale si possono trarre utili informazioni su una varietà di temi: non solo sulla spesa militare mondiale, ma anche sulla produzione e sui trasferimenti internazionali di armi, sulle forze nucleari, sui principali conflitti armati e le operazioni di pace multilaterali, nonché analisi aggiornate su aspetti importanti della sicurezza internazionale, della pace e del controllo degli armamenti.
In una comunicazione del 5 Aprile 2016 destinata ai media il SIPRI informava che “la spesa militare nel 2015 è stata di 1,7 migliaia di miliardi, con un aumento dell’1% rispetto al 2014”. Dopo alcuni anni di modesta riduzione, le spese militari stanno di nuovo crescendo, soprattutto in Asia, Europa centrale e orientale, e alcuni stati del Medio Oriente, mentre sono in declino in Africa e in America Latina.
Secondo il SIPRI, gli Stati Uniti restano in cima alla lista, nonostante un lieve calo, con 596 miliardi di $. Altri Stati che hanno aumentato notevolmente le spese militari sono la Russia (del 7,5%, con una spesa di 66,4 miliardi di $), la Cina (del 7,4%, con una spesa di 215 miliardi di $), l’Arabia Saudita (del 5,7%, con una spesa di 87,2 miliardi di $). L’Arabia Saudita è diventato il 3° Paese del mondo nella lista delle spese militari. Può essere interessante a questo proposito sapere, oltre a chi compra, anche chi vende. L’Italia è implicata: lo vedremo più avanti.
Come segnala lo stesso SIPRI, i dati forniti risentono della scarsa trasparenza di molti Paesi nel fornire i dati: tuttavia forniscono una indicazione di massima.
Nelle due figure qui sotto si può verificare anche la situazione dell’Italia, come risulta dai dati raccolti da due fonti autorevoli (SIPRI e ISS): nel 2015 abbiamo speso tra 21 e 23,8 miliardi di $ (pari all’1,3% del PIL).
I media che informano il pubblico su questi dati sono davvero pochi. “Se vi stupisce il fatto che lo Stato italiano investa ogni ora due milioni e mezzo di euro in spese militari, di cui mezzo milione solo per comprare nuove bombe e missili, cacciabombardieri, navi da guerra e carri armati, allora vuol dire che c’è bisogno di maggiore informazione e di maggiore controllo democratico sulle spese militari nel nostro paese!”.
Quali sono le ‘voci di spesa’ che contribuiscono al capitolo generale ‘spese militari’? I dati più accessibili al pubblico sono quelli relativi all’acquisto di armamenti: dalle armi leggere agli aerei, dai sottomarini alle bombe atomiche. Ma gli apparati militari richiedono molto di più: la formazione degli eserciti, l’addestramento dei piloti, la manutenzione di spazi (dalle caserme ai poligoni di tiro), le ricerche di nuove tecnologie sono solo alcune delle voci che il settore ‘difesa’ di ogni paese deve affrontare – anche in situazioni di pace.
Tra le spese militari rientrano anche quelle che riguardano gli armamenti nucleari: dai missili alle testate nucleari, alle basi blindate di stoccaggio delle bombe. Secondo i dati SIPRI, all’inizio del 2015 nove Stati – Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Repubblica Popolare Democratica di Corea (Corea del Nord) – si trovavano in possesso complessivamente di circa 15.850 armi nucleari, di cui 4.300 operative. Di queste, circa 1.800 sono tenute in stato di pronta disponibilità (cioè impiegabili anche con breve preavviso). Nella Tabella sono riportati i dati del 2010 sui principali possessori di armi nucleari nel mondo e relativi costi in dollari (spese di base, e spese che comprendono manutenzione e sicurezza).
E’ di questi giorni la notizia che l’Assemblea Generale dell’ONU ha approvato una risoluzione perché dal 2017 partano i negoziati per un Trattato internazionale che vieti le armi nucleari. La risoluzione è stata approvata da 123 Paesi, 16 Stati si sono astenuti ma 38 Paesi hanno votato contro, tra cui l’Italia. In compagnia di quasi tutte le nazioni nucleari del mondo e tanti alleati degli Stati uniti che, come l’Italia, hanno sul proprio territorio ogive nucleari: si chiamano bombe B61-12 e potranno essere montate sugli F35 che – a proposito di “costi della politica” – ci costano più di 15 miliardi di euro. I primi due F35 arriveranno nella base di Amendola l’8 novembre prossimo, ma senza le istruzioni per l’uso, che resta quindi sotto il diretto controllo degli Usa.
COMPRA-VENDITA DI ARMI
L’articolo 11 della Costituzione Italiana è chiaro: “L’Italia ripudia la guerra”. Non solo, ma la nostra Repubblica favorisce la pace e chi opera in questa direzione. Eppure il mercato delle armi non conosce crisi e come ha detto Ban Ki Moon: “Il mondo è troppo armato e la pace è sottofinanziata”. L’Italia è particolarmente in difetto rispetto all’Art. 11: non solo destina una parte rilevante delle sue risorse alle spese militari, ma contribuisce attivamente alle spese degli altri! Da un’analisi dell’Istituto di Ricerche internazionali Archivio Disarmo relativa alla relazione al Parlamento sulle “operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, emerge che “nel 2014 il valore globale delle licenze di esportazione definitiva concesse dal ministero degli Esteri è stato di 2.650.898.056, con un incremento del 23,3% rispetto all’anno precedente”.
Ma è stato il 2015 a segnare un vero e proprio “record”. L’esportazione di armi italiane nel mondo ha segnato un +200% rispetto all’anno precedente, per un valore globale delle licenze di esportazione di 8.247.087.068 di euro, come emerge dalla relazione annuale del Governo sull’export militare italiano 2015.
Aspetti perversi del commercio di armi
Alimentano la guerra, vendono la sicurezza
Tra i big players del settore della sicurezza dei confini dell’Europa figurano aziende che producono sistemi militari, come Finmeccanica (che di recente ha assunto il nome Leonardo), che è anche tra le prime quattro aziende europee esportatrici di sistemi militari, ed è attiva nel vendere i propri sistemi d’arma ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, alimentando i conflitti che sono all’origine della fuga di intere popolazioni. Frontex, la principale agenzia di controllo delle frontiere, ha visto accrescere molto il proprio bilancio tra il 2005 e il 2016, portandolo da 6,3 milioni a 238,7 milioni di euro. L’industria degli armamenti e della sicurezza ha ottenuto anche gran parte dei finanziamenti di 316 milioni di euro forniti dall’UE per la ricerca in materia di sicurezza.
Donne? Donne??? Donne?????
18 luglio 2016 a Bruxelles in occasione dell’incontro ministeriale congiunto fra Consiglio d’Europa e Consiglio di Cooperazione del Golfo che comprende Arabia saudita, Kuwait, Emirati arabi, Qatar, Bahrein, Oman, i giornalisti hanno posto alcune domande durante la conferenza stampa congiunta dell’alto rappresentante della politica estera UE, Federica Mogherini e il ministro saudita Adel al Jubeir. In questa occasione la Mogherini ha ricordato che “I paesi del Golfo sono il quarto mercato di esportazione dell’Ue, per un flusso commerciale totale pari a 155,5 miliardi di dollari all’anno nel 2015”. Un flusso crescente, +15% ogni anno. E, prosegue l’alta rappresentante, “continueremo ad approfondire le nostre relazioni rimuovendo gli ostacoli al commercio, e proteggendo e promuovendo gli investimenti”.
Ancora… donne? Donne?? Donne???
Sul quotidiano online ‘Libero Pensiero’ del 12 ottobre 2016 il giornalista Pietro Marino fornisce alcune informazioni sul commercio di armi in atto tra l’Italia e l’Arabia Saudita. Risale a un anno fa l’invio di un carico di bombe partito dalla Sardegna e destinato all’Arabia Saudita. Partendo da questo episodio la procura di Brescia ha aperto un fascicolo sull’ipotesi di violazione della legge 185. La ministra Roberta Pinotti, chiamata in causa in quanto Ministro della Difesa, ha risposto che l’export non è di competenza della Difesa ma degli Esteri, e in un comunicato si è mostrata comunque soddisfatta per i rapporti tra Italia e Arabia Saudita, consolidati durante una sua recente visita in Arabia Saudita: “L’Italia guarda con grande interesse al ruolo dell’Arabia Saudita, per la stabilità della regione, e al rafforzamento dei rapporti bilaterali tra i due Paesi”. Durante il colloquio è emersa l’esigenza comune di assicurare la stabilità alle regioni del Medio Oriente e del Nord Africa allo scopo garantire alle popolazioni di queste regioni pace e sicurezza e favorire lo sviluppo economico e sociale, e si è discusso anche “dello sviluppo della cooperazione bilaterale con un focus particolare sui settori della formazione e dell’addestramento militare”.
Eppure, secondo la legge n. 185 del 9 luglio 1990, “l’esportazione ed il transito di materiali di armamento sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato”.
Il business della compra-vendita
Da quanto emerge delle informazioni accessibili, l’Italia è inserita in un complesso flusso di produzione – acquisto – vendita di armamenti. Impegna i soldi dei contribuenti per affrontare delle spese militari (acquistando, dunque, aerei, navi, sommergibili ecc.); contemporaneamente produce (grazie a imprese private, spesso multinazionali) armamenti da vendere ai paesi ‘amici’ (dalle armi leggere agli aerei da caccia). Per la Ministra Pinotti: «la produzione estensiva di sistemi per il cliente nazionale è il prerequisito di referenza indispensabile ad ogni opportunità di vendita all’estero» e «lo sviluppo del nuovo velivolo1 collocherebbe l’industria nazionale in posizione di vantaggio sul mercato internazionale in una finestra temporale nell’ambito della quale potrebbero essere concretizzate ottime opportunità di collaborazione e/o vendita».
Nell’immagine, la Ministra Pinotti a colloquio con i colleghi del Kuwait (si sta organizzando la vendita al Kuwait di aerei da caccia Eurofighter prodotti in Italia).
Il sito di Milex (Osservatorio sulle spese militari italiane) ha pubblicato di recente (11 ottobre 2016) i documenti che attestano la richiesta – sottoposta al parere del Parlamento dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti – per l’acquisto di nuovi armamenti: 50 carri armati “Centauro 2” supercorazzati (520 milioni di Euro), 3 prototipi di elicotteri dotati di missili, razzi e cannoni, per una spesa di 487 milioni di euro. Che sarebbero la prima tranche di una serie che dovrebbe portare all’acquisto di 136-150 unità (per una spesa di circa 1,5 miliardi). Costo complessivo oltre un miliardo di euro, quasi tutti a carico del Ministero dello Sviluppo Economico. Quindi… non saranno contabilizzati dal SIPRI tra le spese militari?!?!?
Fondi UE all’industria delle armi?
Proprio in questi giorni il Parlamento Europeo e gli Stati Membri dovevano prendere una decisione2 su una proposta – avanzata dalla Commissione Europea – di finanziare una “Preparatory action (PA) on Defence Research”, in altri termini di finanziare la ricerca a scopo militare. Programmi di ricerca per una difesa cooperativa sono essenziali – secondo questa proposta – per sostenere e migliorare capacità militari strategiche in Europa. La Commissione Europea, che attualmente finanzia progetti di Ricerca e Sviluppo (R&D) esclusivamente civili o a doppio uso con il programma Horizon 2020 da 80 miliardi di Euro, ritiene necessario inserire un nuovo capitolo tematico, che riguarda la cooperazione alla difesa e il sostegno alle industrie di difesa europee.
Sebbene il progetto menzioni, per il 2017, una possibile assegnazione di 25 milioni di Euro, in realtà i piani dell’industria bellica sono molto ambiziosi: il PA dovrebbe durare tre anni (2017-2019) per un totale di 80 milioni di Euro. Ma si tratta solo del primo passo verso un Programma di Ricerca per la Difesa Europea (European Defence Research Programme: EDRP) di 3,5 miliardi di Euro nella futura programmazione finanziaria.
COSTI
Oltre alle ragioni che ci sono più familiari per opporci alla guerra, oltre al fatto che è orrenda, letale, che non risolve i conflitti e provoca dolore e strazio, vi sono altre ragioni che non emergono nelle discussioni e nei conti. La moderna macchina bellica, che utilizza una straordinaria potenza e permette di fare la guerra anche a grandi distanze, trasformando i conflitti locali in campi di battaglia globali, presenta numerosi costi nascosti. Costi che non vengono contabilizzati –non compaiono nelle voci di spesa – ma che hanno effetti negativi sulle comunità umane, sugli altri viventi, sull’intero pianeta.
Economia di guerra contro economia di pace
Il sistema militare è un grande ‘consumatore’ di energie e materia, nonché di territorio ed acqua per le prove e le manovre. Inoltre, con l’aumento delle dimensioni della sofisticazione del sistema militare, questi bisogni stanno crescendo.
La guerra, e l’insieme di apparati militari che la rendono possibile, consuma una enorme quantità di risorse (materiali ed energetiche) e produce una enorme quantità di scarti, per lo più altamente inquinanti (dalla CO2 alle scorie radioattive). Le guerre in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Siria producono danni ambientali irreversibili sugli ambienti di quei Paesi. I veicoli militari consumano enormi quantità di carburante, che bruciando emette non solo CO2, ma una miscela di gas e polveri molto inquinanti, che danneggiano la salute delle persone e inquinano suoli e acque. I veicoli militari compattano il suolo rendendone impossibile la messa a coltura; sollevano polveri che, mescolate alle tossine prodotte durante le esplosioni, si diffondono ovunque, distruggendo colture e foreste, avvelenando l’acqua, provocando malattie nelle popolazioni e negli viventi che abitano in quei luoghi.
Ma i danni non sono localizzati alle aree di combattimento. Basta pensare alla CO2: il crescente aumento di produzione di questo gas, insieme ad altri gas effetto serra, sta contribuendo ad aumentare la temperatura media dell’atmosfera e a produrre l’acidificazione delle acque oceaniche. La componente emessa dal settore militare è enorme, anche se non quantificata. E non viene neppure citata nei documenti che un anno dopo l’altro vengono approvati nei vari convegni – ultimo quello di Parigi del dicembre 2015 – volti a mettere in atto pratiche virtuose per limitare l’affetto serra. Non si sono studi ufficiali finanziati da enti pubblici, che abbiano l’obiettivo di contabilizzare l’impronta ecologica della guerra. Eppure alcuni studiosi già da tempo avevano richiamato l’attenzione sul carico ambientale del sistema militare, come scriveva già anni fa Bruce E. Johansen: “Attualmente conosciamo l’impronta di carbonio di un pacchetto di patatine che compriamo in un grande magazzino, oppure quella di un paio di scarpe da jogging, ma la guerra resta non misurata. Se vogliamo essere davvero seri quando parliamo di impronta di carbonio, dobbiamo conoscere la quantità di gas serra prodotta da ogni battaglione che va in guerra, di ogni bomba sganciata, di ogni carro armato schierato. Mi sono chiesto quanta CO2 è stata immessa in atmosfera dalla nostra guerra in Iraq – a partire da quella prodotta per trasportare 160.000 uomini di truppa e 130.000 contractors dagli USA fino in Iraq, spesso in aereo, con i loro equipaggiamenti e provviste. Ho letto che 1,4 milioni di bottiglie di acqua al giorno sono state inviate alle nostre truppe, per evitare la disidratazione nei caldi giorni estivi a Baghdad, e mi sono domandato quanto gasolio e benzina sono stati consumati per portare quelle bottiglie fino alle zone di guerra – e si tratta solo di una piccola fetta dell’impronta di carbonio della guerra moderna”.
Non solo non si tiene conto dell’impatto ambientale del sistema militare nel produrre effetto serra, ma sono davvero modesti gli investimenti per arginare il cambiamento climatico, pur essendo ormai evidente che le trasformazioni in atto sul nostro pianeta (dalle alluvioni ai processi di desertificazione) possono alimentare nuovi tragici conflitti e causare infinite sofferenze a numerose popolazioni costrette ad allontanarsi dai loro ambienti di vita. In questa guerra globale contro il nostro stesso pianeta, è sempre più difficile distinguere migranti ambientali dai profughi di guerra.
Nello schema qui a fianco è presentato un confronto fra la spesa pubblica per gli interventi militari e per i provvedimenti contro i cambiamenti climatici in USA eseguiti e previsti dal 2015 al 2017.
Gli Stati Uniti appaiono meno lungimiranti della Cina nell’affrontare il cambiamento climatico. Nel 2016 gli USA stanno spendendo 2 volte e mezzo più dei Cinesi per il settore militare, mentre i Cinesi destinano al problema climatico un budget che è una volta e mezza più grande degli americani.
Finanziamenti militari vs investimenti civili
Anche in tempi di pace i militari sono attivi: gli addestramenti dei soldati, dei piloti, dei marinai richiedono ingenti flussi di energia e materia (dai carburanti per i voli alle munizioni per gli addestramenti); la gestione delle basi – spesso in luoghi strategici lontani dalla nazione di appartenenza – implica un elevato consumo di territorio, un flusso ingente di rifornimenti, e la produzione di rifiuti spesso di difficile smaltimento. I frequenti ricambi di personale richiedono spese e consumi per viaggi anche su lunghe tratte. Non basta che si firmi un armistizio, o un trattato di pace. Un mondo orientato alla soluzione violenta dei conflitti si prepara costantemente alla guerra, permeando l’intera società civile: non solo distoglie ingenti risorse finanziarie da scopi pacifici, ma organizza il territorio, il sistema educativo, i temi e gli obiettivi della ricerca scientifica, sociale, economica. Alcuni dati possono servire come esempi. Vengono confrontati i costi previsti per il raggiungimento degli Obiettivi di uno Sviluppo Sostenibile, fissati dalle Nazioni Unite nel 2015, rispetto alle spese militari sostenute nel 2015.
Da una comunicazione di Emergency:
Per l’intervento militare in Afghanistan, in questi 15 anni, l’Italia ha speso 6 miliardi di euro. Gli Usa da soli hanno speso 700 miliardi di euro. Possiamo anche dirlo in un altro modo: i contribuenti in Italia e negli Stati Uniti, volenti o nolenti, hanno speso queste cifre. […] Il lavoro di Emergency in Afghanistan, dal 1999 a oggi, è costato poco più di 84 milioni di euro. Possiamo anche dirlo in un altro modo: abbiamo investito 84 milioni di euro in cura, lavoro, educazione e dignità sociale, grazie chi ha scelto di usarli così.
Le guerre stimolano l’attività economica aumentando la domanda di beni e servizi necessari ai militari. Un aumento della domanda per sistemi d’arma, munizioni, uniformi, veicoli militari aumenta l’attività produttiva a scopo bellico. Tuttavia le guerre, aumentando il personale militare e stimolando le attività di guerra, fanno perdere l’opportunità di stimolare altri tipi di attività economiche, come la produzione di energia pulita o un aumento dell’accesso all’educazione. Quindi le opportunità di lavoro create dalla guerra dovrebbero essere confrontate con le opportunità offerte – a parità di finanziamenti – per lavori ‘di pace’. Nel 2014 una ricercatrice, Heidi Garrett-Peltier, ha presentato una stima delle possibilità lavorative offerte da una società ‘di guerra’ rispetto a una società ‘di pace’.
L’Autrice conclude il suo studio sottolineando che se gli Stati Uniti non avessero intrapreso guerre tra il 2011 e il 2014 le opportunità di lavoro sarebbero state da 1 a 2 milioni di posti di lavoro maggiori. Così, spendere in tempo di guerra non soltanto riduce le opportunità di avere un ambiente più pulito e una popolazione più scolarizzata, ma riduce le possibilità dei disoccupati di trovare impiego.
Un caso ben documentato: il Regno Unito
Grazie allo straordinario lavoro di documentazione di una Associazione inglese di scienziati (Scientists for Global Responsibility, SGR) è possibile avere a disposizione molti dati interessanti sul ruolo della ricerca e degli scienziati nel processo di militarizzazione di questo Paese. Processo che – con minore trasparenza – è in atto in tutti i Paesi dell’UE).
Per quanto riguarda il finanziamento pubblico del settore Ricerca & Sviluppo (R&D) destinato al militare, la Tabella qui accanto illustra le principali voci di spesa.
Le Università inglesi ricevono cospicui fondi per ricerche
militari: in parte da fondi governativi, in parte da imprese del settore (BAE, AWE–Atomic Weapons Establishment, Defence Technology Centres-DTC).
DANNI
La riflessione sulle SPESE e sui COSTI che le società militarizzate devono affrontare fa emergere alcuni aspetti particolarmente vistosi del carico che la guerra, la sua preparazione e le sue conseguenze infligge alle popolazioni: sia a quelle direttamente e tragicamente coinvolte, sia a quelle che – apparentemente – vivono in pace. In realtà, come si è cercato di esemplificare, ci sono ingenti spese, esplicite e occulte, e ci sono costi non solo economici, ma sociali e ambientali che solo in piccola misura vengono quantificati.
Ma al di là delle SPESE e dei COSTI, ci sono dei DANNI che non si possono quantificare, per vari motivi: alcuni danni non sono valutabili in termini economici, come la perdita di vite umane, di una cultura, di un ecosistema. Ma soprattutto, alcuni danni non sono percepiti come tali dalle società stesse che li subiscono: la perdita del senso di solidarietà, lo smarrimento di non sentire più rispetto e reverenza per la Natura, la perdita di fiducia in un futuro equo. Tra i danni psichici che stanno permeando il nostro inconscio collettivo vi è anche il senso di frustrazione di fronte alle sofferenze causate dalle varie forme di violenza: quella culturale del razzismo, quella strutturale degli scambi economici iniqui, quella diretta di guerre locali viste in diretta dalle televisioni globali.
E’ importante reagire: sia individualmente, sia collettivamente, con gruppi, istituzioni, movimenti. Molte sono le opportunità che ci vengono offerte per pensare e agire in modo costruttivo, e costruire, giorno per giorno, piccoli elementi di una società di pace.
Tempi lunghi per costruire la pace
Riconversione delle spese militari
Si è concluso poche settimane fa il Congresso Mondiale dell’IPB (international Peace Bureau) che aveva come titolo: Disarm! For a Climate of Peace – Creating an Action Agenda. Il tema principale dibattuto nel Congresso è stato quello di individuare e intraprendere delle azioni concrete per convertire gli enormi investimenti destinati ai settori militari verso iniziative in grado di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni civile. Tra i numerosi contributi presentati ecco un esempio di possibile ‘conversione’.
Al bando le armi nucleari
E’ in votazione proprio in questi giorni3 (ottobre 2016) l’approvazione della Risoluzione L. 41, una raccomandazione varata nel mese di agosto da un Gruppo di Lavoro aperto (OEWG) delle Nazioni Unite sul disarmo nucleare svolto a Ginevra. Più di 100 Stati hanno partecipato a tale Gruppo di lavoro, con una schiacciante maggioranza che ha espresso un orientamento convinto ed esplicito per la proibizione delle armi nucleari come primo passo verso la loro eliminazione. Il progetto di risoluzione noto come L.41 che si voterà si basa su due percorsi internazionali: l’OEWG di Ginevra e il percorso umanitario iniziato con la conferenza di Oslo del 2014 e poi proseguita con Nayarit e Vienna (dicembre 2015).
La Risoluzione propone due Conferenze di negoziato da svolgersi per oltre 20 giorni complessivi (dal 27 al 31 Marzo 2017 e dal 15 giugno al 7 Luglio 2017) presso la sede delle Nazioni Unite a New York. Tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, insieme con le organizzazioni internazionali e membri della società civile, saranno invitati a partecipare a tali Conferenze. I negoziati potrebbero continuare al di là di queste date.
Un Trattato che vieta le armi nucleari servirebbe a colmare il “vuoto giuridico” attualmente esistente in materia di armi nucleari, come riconosciuto e sottolineato da alcuni anni dalla Iniziativa Umanitaria (Humanitarian Pledge) promossa da diverse organizzazioni internazionali. Una grave anomalia: quelle nucleari sono le uniche armi di distruzione di massa non ancora vietate dal diritto internazionale in modo globale e universale.
Le armi chimiche, armi biologiche, mine antiuomo e bombe a grappolo sono tutti armamenti espressamente proibiti attraverso Convenzioni internazionali. La maggior parte delle Nazioni concorda con il fatto che la proibizione delle armi nucleari sia oggi l’unico piano di azione adeguato alla luce delle conseguenze umanitarie catastrofiche del loro uso.
I “disarmisti esigenti” (Campagna osm-dpn, Energia Felice, WILPF Italia, Peacelink, Armes Nucléaires STOP, Accademia Kronos e altri) in Italia chiedono che anche il nostro Paese svolga un ruolo attivo per votare la proibizione giuridica delle armi nucleari. Per saperne di più si può consultare il loro sito.
Ricerca, educazione e azione
Per concludere ricorro a un articolo che Nanni Salio scrisse nel novembre 2015, pochi mesi prima di morire: “I due terrorismi e le alternative della nonviolenza”. Rimando al testo completo, e cito qui la parte conclusiva, in cui Nanni sollecita – ancora una volta – a intraprendere progetti concreti di medio e lungo periodo, e ne segnala alcuni, frutto degli studi avviati da tempo nel campo della ricerca per la pace.
1 Costituire e addestrare Corpi Civili di Pace con compiti di mediazione, interposizione e prevenzione, ispirandosi alle iniziative ed esperienze in corso da decenni e attuando le proposte presentate nelle principali sedi istituzionali internazionali, dall’Unione Europea alle Nazioni Unite
2 Riconvertire le industrie belliche e l’intero complesso militare-industriale in industrie civili e centri di ricerca per la pace e la sperimentazione di tecniche di risoluzione nonviolenta dei conflitti.
3 Promuovere percorsi di educazione alla pace e alla nonviolenza sia nel mondo della scuola sia nella società in generale, per imparare ad affrontare i conflitti con creatività, concretamente e costruttivamente, senza cadere nella trappola della violenza.
4 Riconversione ecologica e intellettuale dell’economia mondiale verso forme di economia gandhiana nonviolenta ispirate al paradigma della semplicità volontaria e del “partire dagli ultimi”. E’ una ricerca in atto, con sperimentazioni diffuse in ogni angolo del mondo, da cui c’è molto da imparare per superare la ristretta e distruttiva logica del capitalismo finanziario basato sulla crescita illimitata e sul profitto senza scrupoli.
5 Utilizzare al meglio le attuali capacità di comunicazione su scala globale per costruire un “giornalismo di pace” alternativo al “giornalismo di guerra” tuttora dominante e che vediamo in azione a ogni evento luttuoso.
6 Dialogo tra le religioni per riscoprire il comune fondamento basato sulla nonviolenza. Far conoscere in particolare le componenti più coerentemente nonviolente presenti in ciascuna religione, dai Quaccheri ai Sufi, dall’islam nonviolento di Badshah Khan, il “Gandhi musulmano”, alle tradizioni nonviolente della cultura ebraica, il Tikkun (aver cura del mondo), e buddhista.
7 La cultura scientifica e la tecnoscienza svolgono una funzione cruciale nei processi evolutivi dell’umanità, ma occorre orientarle anch’esse, in tutta la loro enorme potenzialità, verso la cultura della nonviolenza. La responsabilità sociale dei tecnoscienziati è un punto nodale della ricerca scientifica.
8 La cultura artistica, in tutte le sue principali manifestazioni, può e deve essere orientata verso lo sviluppo di una creatività che favorisca la ricerca di soluzioni nonviolente ai conflitti umani. Cinema, teatro, pittura, musica, letteratura sono strumenti da utilizzare per facilitare sia la cura dei traumi subiti sia la elaborazione positiva di visioni del mondo più armoniche.
9 Affrontare la grave crisi delle democrazie rappresentative e partitiche occidentali, che nel corso del tempo si sono trasformate prevalentemente in oligarchie finanziarie e populismi di stampo reazionario. Promuovere la partecipazione attiva e diffusa e l’autogoverno della cittadinanza.
10 Considerare i due terrorismi come una malattia mentale, una patologia mortale dell’umanità. Utilizzare il paradigma medico della diagnosi, prognosi e terapia (del passato e del futuro) per curare gli attori sociali dei due terrorismi.
Nanni conclude questo articolo sottolineando che per realizzare questi progetti “non basta la vita” di una singola persona, per quanto geniale, creativa, amorevole come quella dei grandi maestri che ci hanno preceduto, da Gandhi a Martin Luther King, da Danilo Dolci ad Aldo Capitini, da Buddha a Gesù.
E’ un compito collettivo dell’intera umanità, possibile, doveroso, entusiasmante, per mettere fine alla violenza nella storia e far compiere un salto evolutivo alla natura umana.
Inventare la pace è un metodo, una tecnica per ridefinire il modo in cui vediamo gli altri e noi stessi. Inventare la pace significa inventare i mezzi etici per immaginare il mondo in modo diverso.
(Wenders & Zournazi, Inventare la pace. Bompiani, 2014).
NOTE:
1 Si tratta di 28 aerei da caccia che la Finmeccanica/Leonardo costruirà per lo Stato del Kuwait http://www.armiespy.com/28-caccia-eurofighter-al-kuwait-commessa-record-finmeccanica/
2 La decisione è stata presa, purtroppo, e positivamente, il 27 ottobre 2016: Ingenti spese per la ricerca militare
3 La risoluzione è stata approvata il 27 ottobre
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Elena Camino è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e Gruppo ASSEFA Torino.
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